Libia, la guerra civile in corso
e le emozioni degli ebrei fuggiti nel ’67

Un conflitto lacerante e sanguinoso a pochi chilometri da casa. Praticamente ogni giorno la guerra civile libica è sui giornali, anche per le intricate vicende diplomatiche che coinvolgono in prima linea l’Italia. Come vivono questa situazione gli ebrei libici costretti a lasciare il Paese in diverse ondate oltre 50 anni fa? Sono emotivamente coinvolti?
“Le immagini delle devastazioni riportano alla memoria con il loro carico di dolore il passato. Da quel mondo sono venuto via in seguito a un sanguinoso pogrom, il terzo in 22 anni. La comunità per otto decimi era emigrata tra il ’48 e il ’51 in Israele, gettandosi alle spalle il dolore e trasfigurando l’esilio e la perdita di un mondo in un grande esodo” commenta David Meghnagi, direttore del Master internazionale di secondo livello in Didattica della Shoah a Roma Tre e assessore alla Cultura UCEI. “Ho vissuto per molti anni – spiega – come se nella mia vita ci fossero due momenti distinti e irriducibili. Il prima e il dopo. Pian piano capii che lo schema in cui era avviluppata la mia esperienza non era solo, ed esclusivamente, un fatto privato. Centinaia di migliaia di persone in modo diverso e specifico condividevano lo schema. Questo mi ha aiutato nel mio lavoro come clinico ad aiutare persone di fedi e appartenenze diverse a ricostruire le loro esistenze spezzate”.
“Nella fuga subita e non rielaborata – prosegue Meghnagi – un pezzo di noi rischia di non viaggiare con noi, creando nella psiche delle cripte segrete in cui il passato non passa e dietro le rimozioni ci sono sogni infranti e nostalgie di vite non vissute. Nel percorso del lutto il passato può tornare a vivere liberato dai suoi incubi”. Per Meghnagi, la fuga degli ebrei dal mondo arabo, “ignorata dalla stampa e dai media, in nome di false narrazioni ideologiche e politiche, preannunciava col suo carico di dolore, dignitosamente portato sulle spalle, la violenza che si sarebbe in seguito scatenata”.
Dopo la fuga degli ebrei, sottolinea, “è infatti toccato anche alle altre minoranze e ora anche alle maggioranze”. E per questo “l’augurio è che il Mediterraneo possa un giorno tornare ad essere un mare di incontro fra civiltà e non di odio, di guerre e di fondamentalismi”. Ma perché questo accada “ognuno dovrà fare la sua parte, rimarginando per quanto possibile le ferite aperte, restituendo voce alla speranza e alla fioca voce dell’intelletto”.
Esiste l’eventualità di un ritorno a Tripoli in futuro? “Tripoli – risponde Meghnagi – è partita con me, me la sono portata dentro. Come atto di resistenza culturale all’odio gratuito ho conservato la lingua araba”. Nel 2005 un gruppo di ebrei libici fu invitato da Gheddafi, apparentemente intenzionato a favorire un loro ritorno. “Rifiutati l’invito in modo netto, perché consapevole che si trattava di un’operazione finalizzata esclusivamente a favorire una parvenza di accettabilità agli occhi del Senato americano. Il vero nodo non era la possibilità per chi era fuggito nel ’67 di rivisitare i luoghi di nascita o la apertura di un centro culturale o di una sinagoga. Ma il riconoscimento pieno di Israele dove vive la stragrande maggioranza degli ebrei fuggiti dal mondo arabo, e lo scambio di ambasciate. Partecipare – spiega – avrebbe significato essere il soggetto passivo di uno schema culturale tipico della condizione dei ‘dhimmi’, i sudditi non-musulmani di uno Stato governato dalla la legge islamica: una posizione di subalternità, di autodiniego”. Anche per questo, aggiunge, rifiutò di incontrare il Colonnello quando alcuni anni dopo venne in visita a Roma. “Nelle stesse ore ero in audizione alla Camera, assieme tra gli altri all’ex ministro canadese Irwin Cotler e a Fiamma Nirenstein, vice presidente della Commissione esteri, per denunciare la persecuzione degli ebrei nei Paesi arabi”.
Victor Magiar, assessore UCEI ed esperto di cooperazione e relazioni internazionali, a Tripoli ci è nato. Era il 1957. Dieci anni dopo la drammatica fuga. “Seguo questo conflitto – racconta – più da un punto di vista professionale che con un reale coinvolgimento emotivo. Si tratta infatti di un appuntamento centrale nel quadro della ridiscussione del Medio Oriente, anche per quanto riguarda la complessa evoluzione delle alleanze. Mi sorprende in generale come la stampa italiana affronti questo tema, non approfondendo in modo necessario la dinamica politica in corso tra un pezzo di mondo arabo che cerca di allontanarsi dal terrorismo e dal radicalismo islamico e un altro invece che appare assai più ambiguo. Una vera e propria resa dei conti”. Il mondo, prosegue Magiar, ha bisogno che questo pezzo di terra alle porte dell’Italia e dell’Europa “sia controllato”. Voltare pagina, quindi. Ma sarà possibile? “Uno dei grandi problemi della Libia di Gheddafi, con ripercussioni ancora evidenti – sottolinea Magiar – è stato l’annichilimento di un embrione significativo di borghesia, che non a caso ha mandato i propri figli a studiare e a formarsi all’estero. La grande massa è rimasta nel buco nero della propaganda”. Tripoli è il passato, ma potrà mai esserci anche un futuro? Per un ebreo libico cacciato con la violenza questa città e questo Paese significano ancora qualcosa? Lo chiediamo anche a lui. “Non saprei. In questi anni ho cercato di coltivare rapporti con personalità politiche, intellettuali, ricercatori. È difficile comunque classificare la Libia di oggi: una macedonia di situazioni e psicologie. Più incoraggiante quel che accade dall’altra parte del confine, in Tunisia. Un Paese che ha fatto passo avanti da molteplici punti di vista”.
All’incontro con Gheddafi del 2005, Claudia Fellus, già vicepresidente della Comunità ebraica di Roma, oggi impegnata in alcuni progetti di cooperazione tra Italia e Israele, era presente. “Ero – spiega – l’unica donna nella delegazione”. Il Colonnello si lanciò in mille promesse. Ma, sottolinea Fellus, “si vedeva che erano parole campate in aria, che non c’erano reali spiragli. Ci diceva: ‘Questa è la vostra casa, non siete come gli italiani, tornate’. Ma non era credibile”. Oggi, guardando a questo nuovo conflitto, il suo commento è questo: “Meno male che siamo andati via. E meno male che, successivamente, non ci siamo fatti incantare”.
Nel 1967, l’anno della fuga, Fellus aveva otto anni. Un trauma destinato con difficoltà a rimarginarsi, come ha recentemente raccontato ne “Il mare della nostra storia”, film di Giovanna Gagliardo che racconta cento anni di storia libica, dall’occupazione italiana di Tripoli alla cattura di Gheddafi, anche grazie ad alcuni materiali inediti forniti dall’Istituto Luce. “Quella cui assistiamo – dice Fellus – è una guerra tribale, diretta conseguenza di situazioni che già allora si vedevano. Purtroppo non sono molto ottimista su una veloce e positiva risoluzione del conflitto. In ogni caso per me Tripoli è un capitolo chiuso”. La preoccupazione per quanto sta accadendo è tanta. Ma non è una preoccupazione legata in qualche modo alla radice libica, ma alla condizione di cittadina italiana “allarmata da un conflitto di questa portata, così drammatico e così vicino a noi”.
Racconta Miriam Haiun, direttrice del Centro di Cultura della Comunità ebraica di Roma: “Siamo andati via nel 1962, avevo 6 anni, ero molto piccola. Non ho un particolare attaccamento alla Libia in quanto entità territoriale, ma piuttosto in quanto luogo d’origine di tradizioni che abbiamo portato nel cuore, conservato e diffuso anche in Italia. La Libia in quanto nazione è un pezzetto della mia radice, ma non mi appartiene fino in fondo. Per questo seguo queste ultime vicende con un coinvolgimento relativo”. A differenza di altri profughi ebrei andati via nel ’67, Haiun dice di non avere “quel sentimento di rivalsa e odio tipico di chi è stato cacciato, anche se per i miei genitori, che persero comunque delle proprietà, non fu certo un momento felice”. Di Tripoli conserva ricordi sfumati. E considera assai più una “sua” città Milano, dove è poi cresciuta. “Tripoli – afferma – è la città dei miei genitori e vive nella memoria per quello che mi hanno trasmesso di anni migliori rispetto al ’67”. Ma, anche per lei, è un capitolo chiuso. Nessuna particolare voglia di tornarci in visita in un futuro in cui determinate condizioni lo rendessero possibile. “Devo essere sincera: seguo con più apprensione quel che accade in Israele rispetto alle dinamiche di questo conflitto civile. È un qualcosa che sento decisamente più mio”.
L’artista Giorgio Ortona vive a Roma e da Tripoli se ne è andato quando aveva sette anni. “Per me – spiega – fu quasi un gioco, protetto com’ero dai miei genitori. Non mi accorsi di nulla perché, a parte la condizione di dover vivere con le serrande chiuse, non fui testimone di esperienze drammatiche. Diversamente da mio fratello Yoram, di alcuni anni più grande, che fu inseguito da alcuni arabi e che ancora vive quei momenti come un trauma”.
Cosa è Tripoli? Che emozioni suscitano le notizie degli ultimi giorni? “Per quanto faccia parte delle mie radici, a Tripoli non penso più di tanto. E soprattutto, anche qualora ve ne fosse la possibilità, non credo proprio che vorrei visitarla di nuovo”. Le immagini della sua città devastata in televisione comunque non lasciano indifferenti. “Come altri ebrei libici – afferma Ortona – cerco di ritrovare qualcosa dei nostri luoghi. Davanti al piccolo schermo, ma anche in rete. Mi capita infatti di andare su Google Maps e di sforzarmi di ricollocare sulla mappa i tragitti tra casa e scuola. So che anche altri lo fanno”.
Nel ’69, appena due anni dopo la fuga, sua madre riuscì avventurosamente a tornare in patria per recuperare alcuni certificati. “Nessuna prima di lei aveva osato tanto. Una prova di coraggio – riflette Giorgio – di cui penso non sarei stato e non sarei capace”. Ortona è invece critico con chi ha fatto questo tragitto in tempi più recenti, mettendo a rischio la propria vita. “La Libia purtroppo è un posto molto pericoloso, come ci confermano le notizie di queste ore”.

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

(19 aprile 2019)