Il pi greco e la matzà
Qualche giorno fa in una conversazione ho appreso un po’ per caso che il Tanakh e il Talmud considerano il rapporto tra il diametro e la circonferenza equivalente a 3 mentre gli antichi egizi calcolavano il pi greco con un’approssimazione migliore. La mia prima reazione istintiva è stata: “E allora? La Bibbia non è stata scritta per insegnare la matematica. Dove sono gli egizi con il loro pi greco più preciso? Invece noi, con il nostro approssimato, siamo ancora qui che ci accingiamo a festeggiare la nostra vittoria su di loro come facciamo da millenni.” Mentre tiravo fuori questa risposta trionfalistica e un po’ banale mi è sorta spontanea una domanda: siamo usciti vincenti nonostante il pi greco imperfetto o proprio a causa di questo? La seconda ipotesi è straordinariamente affascinante.
Da letterata considero il pi greco essenzialmente una metafora, il simbolo di ciò che è inconoscibile. È un numero che non potrà mai essere noto fino in fondo; nell’ansia di conoscerlo senza ragioni pratiche (pare che ci siano persone che passano il tempo a imparare a memoria il maggior numero possibile di cifre dopo la virgola) c’è qualcosa di un po’ inquietante, quasi una sorta di idolatria. Si può dunque ipotizzare che il Tanakh ci voglia insegnare a ridurre ciò che non si può conoscere a dimensioni umane (“Le cose occulte appartengono al Signore ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli in eterno, perché pratichiamo tutte le parole di questa legge”, Deuteronomio 29, 28). È un insegnamento decisamente appropriato per Pesach dato che il capitolo 12 dell’Esodo, quello che narra dell’uscita dall’Egitto, inizia con l’affermazione “Questo mese sarà per voi il capo dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno”, in cui il “per voi” significa, nell’interpretazione comune, che il calendario delle feste, a differenza dello Shabbat, non è di origine divina ma dovrà essere fissato dal popolo ebraico. E dunque, così come possiamo e dobbiamo celebrare Pesach anche se il nostro calcolo del plenilunio non è astronomicamente perfetto, altrettanto è corretto che in determinate situazioni si consideri la circonferenza semplicemente il triplo del diametro.
Navigando un po’ su internet mi sono resa conto di aver scoperto, come era ovvio, l’acqua calda: ci sono moltissime discussioni e analisi dei passi biblici e talmudici in questione tese a dimostrare che in realtà si parla di cifre diverse da 3, molto più precise, ecc. Tra i testi che mi sono capitati sotto gli occhi mi ha colpito un articolo (Isaac Elishakoff, Elliot M. Pines, “Do Scripture and Mathematics Agree on the Number π?”, Miami International Conference on Torah and Science, 16-18 December 2003) che, tra le altre cose, offre alcuni spunti interessanti a conferma della mia ipotesi iniziale, cioè che l’imprecisione contenga anche un insegnamento morale. La circonferenza calcolata volutamente per difetto potrebbe costituire in determinati contesti una sorta di siepe, ciò che si aggiunge alla norma per essere certi di non trasgredire. Tra gli esempi che porta mi ha colpito (perché di nuovo attinente a Pesach) quello di una matzà tonda, in cui la circonferenza calcolata per difetto proteggerebbe il compratore (che si suppone sia il più povero). Non saprei ripetere tutti i calcoli con cui si arriva a questa conclusione ma il senso generale mi sembra molto chiaro e affascinante: a cosa serve essere precisi in contesti in cui l’imprecisione favorisce il debole? Che male c’è se regaliamo al povero quel 0,14… in più?
Mi piace pensare che tra le libertà che festeggeremo stasera ci sia anche la libertà dalla precisione ottusa e fine a se stessa, così concentrata su di sé da ignorare il contesto e le implicazioni morali di ciascuna scelta.
Anna Segre