Parole per ferireparole per curare
Lasciano allibiti le minacce lanciate a un ragazzo ebreo di Ferrara da un compagno di scuola: “Quando saremo grandi riapriremo Auschwitz e vi ficcheremo tutti nei forni, ebrei di…”, mentre altri lo prendevano per il collo. Oltre al razzismo quotidiano sempre più comune per le vie delle nostre città, compare ora l’antisemitismo verbalmente più violento tra le giovani generazioni. Con impudenza crescente anche tra adolescenti vengono proposte sfide provocatorie e l’intolleranza verbale si fa parossistica. Anzi, maggiore è il tabù rivestito da certi termini, maggiore è la rabbia con cui li si getta addosso alle vittime, più “esaltante” sarà il gesto per chi lo compie senza senso del limite e senza capire appieno il significato totale di quelle parole.
E’ grande la frustrazione di fronte a episodi come questo. Si è colti da un senso di vuoto, si percepisce per un momento l’inutilità palpabile di tutti i giorni della memoria sin qui vissuti, trascorsi nell’illusione di formare i giovani al rispetto dell’altro. Poi per fortuna prevale la considerazione che si tratta comunque di un caso isolato, che tanti altri ragazzi dimostrano invece interesse, coinvolgimento, volontà di capire, apertura al diverso.
Cosa c’è dietro tutto ciò? Si innesta, mi pare, un meccanismo di violenza verbale competitiva, simile a quello che si scatena sui social: sono più forte e domino se ti ferisco nel profondo con parole annichilenti. Alle spalle della tracotanza aggressiva si scorge però una carenza di consapevolezza storica e una debolezza reale di personalità. La violenza verbale sembra rappresentare insomma una sorta di difesa, o comunque un modo per catalizzare l’attenzione altrui (anche negativa) evitando il dialogo. Soffermandosi su questo episodio in occasione della presentazione delle tante manifestazioni previste a Torino in ricordo dei cento anni dalla nascita di Primo Levi, il Presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino sottolineava acutamente la separazione sempre più marcata tra l’impiego di parole terribili e la piena comprensione del loro significato in tutta la portata semantica. Ma l’uso di un linguaggio crea un clima; usare con intenzione minacciosa il linguaggio dell’annientamento nazista può portarci verso un clima nuovamente totalitario, in cui il tabù che proibiva quelle parole rischia di trasformarsi in esaltazione.
Già, Primo Levi. Ancora una volta la sua figura si rivela straordinariamente attuale. Sarebbe centrale se chi scaglia strali di odio attraverso fonemi lanciati come corpi contundenti si soffermasse poi – come riparazione dovuta all’offeso, alla società, a se stesso – a studiare le parole di Primo: l’obbligatorio racconto dell’offesa, certo (Se questo è un uomo, La tregua, Ad ora incerta); così come la penetrante riflessione sull’offesa (I sommersi e i salvati); ma anche la narrazione del chimico e del suo rapporto con la materia, metafora dell’esistenza (Il sistema periodico), anche la descrizione amorevole del lavoro ben fatto (La chiave a stella), cioè la concretezza, la ragione costruttiva (e non distruttiva) come terreni di un’umanità ritrovata nel segno della vita e della razionalità. Sarebbe forse un percorso terapeutico efficace per giovani malati di protagonismo distruttivo.
David Sorani