Il senso di una ricorrenza
Farebbe quasi sorride la polemica, l’ennesima, sul 25 aprile. Che provenga da un ministro della Repubblica così come da altri. Alla fine della fiera, non importa neanche da parte di chi. Poiché la ricorrenza dovrebbe invece essere patrimonio comune, quasi quietisticamente accetta. La qual cosa non vorrebbe comunque dire che tutti la debbano vivere nel medesimo modo. Una repubblica democratica, qual è quella italiana, contempla anche la possibilità del dissenso radicale (il rifiuto del 25 aprile da parte dei neofascisti) a patto, tuttavia, che non sia costume delle autorità e delle forze politiche costituzionali o che dicono di richiamarsi al rispetto della Carta fondamentale. Invece, come una sorta di moto perpetuo che si ripete stancamente, il fuoco di fila si è rinnovato. Recuperando i motivi di un’ambiguità. Aveva infatti dichiarato il ministro degli Interni: «Il 25 aprile non sarò a sfilare qua o là, fazzoletti rossi, verdi, neri, gialli e bianchi. Vado a Corleone a sostenere le forze dell’ordine nel cuore della Sicilia. […] Il 25 aprile ci saranno i cortei dei partigiani e i cortei contro i partigiani. Siamo nel 2019 e mi interessa poco il derby fascisti-comunisti: mi interessa liberare il nostro Paese da camorra e ‘ndrangheta», per poi riconoscere obtorto collo che l’antifascismo è valore costitutivo della Repubblica. Un tale atteggiamento, a dire poco ambiguo se ce ne fosse il bisogno (ambiguo poiché sembra volere tastare terreno e polso alla collettività, per capire fino a che punto ci si può spingere sul piano della provocazione), si incrocia e si confronta con altre condotte. Queste ultime apparentemente molto diverse, poiché messe in campo da ben altri soggetti, che infatti si presentano come diamentralmente opposti sul piano politico, e che si esprimono con il rifiuto di permettere agli eredi della Brigata ebraica di partecipare pacificamente alle manifestazioni collettive. I fuochi incrociati (chi “spara” da destra, contro una memoria che evidentemente non gli riesce di digerire, nonostante i molti anni trascorsi; chi “impallina” dalla sinistra “radicale”, poiché “resistenza è sempre ed Israele è uno Stato criminale, contro il quale dobbiamo resistere”) hanno però la natura di esercizi simmetrici. Volenti o nolenti. Originati da fronti contrapposti, sparano nel vuoto, anche se lo scoppiettio e il frastuono possono risultare molto fastidiosi. Non per il loro rifiuto di quello che è stato ma per il diniego del presente, del suo essere il tempo non di una vuota democrazia formalistica bensì il luogo del pluralismo. D’altro canto, sarebbe forse meglio che pensassimo per davvero che la memoria non deve essere necessariamente un campo consensuale. Semmai costituisce un terreno di conflitto. Poiché senza di esso rischieremmo altrimenti di non capire più che cosa veramente siamo stati e, proprio in ragione di ciò, vorremmo essere per l’oggi come per il domani. Non bisogna cercare sempre e comunque la mediazione, soprattutto se questa implica il venire meno a sé. Per questo si rimane partigiani, ovvero espressione di una parte. Senza che ciò implichi il diritto alla prevaricazione, come invece le anime belle fingono di potere fare, nel nome delle improbabili “pacificazioni”. Torna in mente quanto scriveva Gaetano Salvemini: «Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo soltanto essere intellettualmente onesti e mettere in guardia i nostri lettori. L’imparzialità è un sogno, la probità un dovere».
Claudio Vercelli
(28 aprile 2019)