Come difendersi dagli inganni
Una delle più efferate torture dell’antichità era lo squartamento, così terribile che i pochi casi in cui venne applicata sono passati agli annali della storia. Il condannato (solo gli uomini perché era considerato immorale esporre allo sguardo del pubblico le nudità delle donne) veniva legato per gli arti a quattro carri trainati da focosi cavalli, che erano poi incitati a galoppare in direzioni opposte.
Meio Suffezio, il dittatore degli albani, fu giustiziato in questo modo a Roma come traditore, in Francia Francois Ravaillac, l’assassino di Re Enrico IV e Robert Francis Damiens, che attentò senza successo alla vita del Re Luigi XV; in Russia la zarina Caterina II fece condannare allo squartamento il capo dei ribelli cosacchi del Volga, Emel’jan Ivanovič Pugačëv, mentre in Germania morì squartato il più brutale assassino seriale della storia, Peter Nirsch.
Mi viene a mente questa tortura pensando all’Italia, trascinata in direzioni opposte da politici che sembrano interessati solo a soddisfare le aspettative ciascuno del proprio elettorato, senza preoccuparsi delle conseguenze per il Paese. Ognuno galoppa impavido nella propria direzione apparentemente senza preoccuparsi di che effetto ciò avrà sull’economia del Paese e sul benessere dei cittadini. Non è un giudizio politico ma una constatazione.
Eppure gli italiani, salvo qualche giornale che sembra purtroppo gridare al vento, non si preoccupano e, secondo le previsioni elettorali, continuano a dare fiducia a questo governo strabico che sta squartando il Paese.
Perché? Sto leggendo in questi giorni un bellissimo libro di Michael Lewis, “Un’amicizia da Nobel” (Raffaello Cortina Editore) che racconta il rapporto durato una vita tra Daniel Kahneman e Amos Tversky, due brillanti scienziati emigrati da bambini in Israele con le loro famiglie per sfuggire al nazismo. A Kahneman fu assegnato nel 2002 Premio Nobel per l’economia «per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza». Tversky era purtroppo mancato nel 1996 – e il Nobel per regolamento è conferito solo a persone viventi.
La rivoluzione di Kahneman fu di aver intuito che anche in quelle che paiono essere le decisioni più razionali, per esempio in materia economica e finanziaria, i meccanismi cognitivi automatici e inconsci e le emozioni giocano un ruolo preponderante.
Kahneman cominciò a elaborare questa idea quando, ventenne, gli fu affidato il compito di selezionare le reclute dell’esercito, decidendo chi era adatto a quale corpo e a quale compito. Il giovane autodidatta (in Israele non esisteva ancora una vera e propria facoltà di psicologia) si rese conto che le pessime scelte che venivano fatte dai suoi predecessori (l’esercito allora stava vivendo gravi difficoltà) erano dovuto a quello che chiamò l’effetto alone. Ovvero che i criteri di selezione erano influenzati dalla prima impressione che il candidato faceva ai selezionatori: se questa era positiva (per simpatia, prestanza, humour o altre qualità), le successive valutazioni tendevano ad essere positive, e le debolezze sottovalutate. E così, se la prima impressione era negativa, si rifletteva sul giudizio globale. Per evitare questo problema Kahneman sostituì ai colloqui dei test scritti e, con grande scandalo, si affidò solo a quelli per le valutazioni. In poco tempo l’esercito si trasformò nel mitico Tzahal, a tal punto che, racconta Lewis, il Pentagono lo convocò per chiedergli come mai a parità di armi, equipaggiamento, carri e aerei, gli israeliani vincevano tute le battaglie e gli americani le perdevano. “Qual è il vostro processo di selezione?” volevano sapere.
La prima intuizione del ventenne Kahneman fu seguita dall’elaborazione della sua famosa teoria delle euristiche, nata grazie alla collaborazione con Tversky, ovvero dei processi mentali intuitivi, che consentono di giungere a un’idea in fretta e senza fatica. Sono, dunque, delle scorciatoie molto utili in determinati ambiti, ma pericolose in altri perché possono produrre errori di giudizio chiamati bias cognitivi. Si tratta di giudizi basati su automatismi mentali, utili quando c’è bisogno di prendere decisioni rapide, per esempio in caso di pericolo, ma deleteri in altre occasioni perché fondati su pregiudizi, tra i quali il famoso effetto alone. In base a questa teoria, quando ci si trova dinanzi a un ragionamento complesso, si sceglie la scorciatoia euristica che è più semplice e rapidamente accessibile, in quanto legata a ragioni cognitive o affettive che impediscono di andare più in profondità e prendere decisioni razionali.
Applichiamo tutto ciò alla politica, e non solo quella italiana. La televisione e i new media fanno sì che il primo giudizio sui candidati si basi sull’effetto simpatia, che finisce per avere la meglio su un giudizio ponderato delle reali qualità delle persone. Il fare appello a sentimenti fortemente legati all’emotività –paura, rabbia, rivalsa- crea un condizionamento cognitivo di cui non siamo consapevoli che fa perdere di vista la complessità dei problemi e la necessità di soluzioni articolate, che comportano un giudizio razionale.
Un’altra particolarità notata da Kahneman fu che gli ufficiali dell’esercito, pur confrontati con l’esito disastroso delle loro scelte, continuavano a essere convinti di averle fatte bene, e a utilizzare gli stessi criteri.
Chissà, forse bisognerebbe riuscire a tornare alla vecchia politica, fatta di programmi scritti e non di apparizioni TV e di messaggi twitter e Facebook.
Ma le nostre società non sono l’esercito israeliano, e dobbiamo perciò rassegnarci, finché durerà la democrazia, a essere governati da politici che vengono eletti in quanto istrioni, o abili nel fomentare sentimenti di paura: come ha dimostrato Kahneman, la paura della perdita ha un ruolo molto più importante nelle decisioni che la speranza di guadagno.
Uno spiraglio di speranza lo apre il neuroscienziato Matteo Motterlini, Professore ordinario Filosofia della Scienza, Università San Raffaele e autore di parecchie saggi sulle basi dei processi decisionali tra cui “Trappole mentali: Come difendersi dalle proprie illusioni e dagli inganni altrui” (Rizzoli 2008), che dovrebbe diventare una lettura obbligatoria per gli studenti del liceo.
“Non si possono fare politiche pubbliche senza tenere conto del comportamento reale dei cittadini –spiega – ovvero senza verificare, dati alla mano, cosa è efficace e cosa non lo è nel migliorare il loro benessere, dalla sanità all’istruzione, dalle politiche fiscali alla disoccupazione. Oggi si stima siano 51 i Paesi che hanno la loro Behavioral Insights Unit governativa, e molti altri quelli si avviano velocemente a istituirla, e sono 135 i Paesi (sui 198 riconosciuti dall’ONU) quelli che hanno adottato iniziative politiche ispirate dalle scienze comportamentali, che sono ormai destinate a far parte della cassetta degli attrezzi dell’attività di ogni governo. L’assegnazione del Nobel l’anno scorso all’economista Richard Thaler, uno dei fondatori del Behavioural Insights Team del governo britannico, riconosce l’avvenuto passaggio delle scienze cognitive dalla teoria alla pratica. Purtroppo nel nostro Paese la politica guarda alle scienze comportamentali più per migliorare le tecniche di propaganda che per migliorare il modo di governare e l’efficacia delle politiche pubbliche”.
Viviana Kasam
(29 aprile 2019)