A 70 anni dal dramma di Superga
Erbstein, storia e Memoria d’Europa
“In Ungheria sapevamo poco o nulla di Erno Egri Erbstein. Un po’ per motivi politici, a causa dell’oblio storico dovuto al regime comunista, un po’ perché gli anni del dopoguerra per il calcio ungherese sono associati al mito di Puskas. Grazie a un libro, ho scoperto la straordinaria storia dell’allenatore del Grande Torino, della sua militanza in una squadra di Budapest di cui non sapevo l’esistenza e così abbiamo deciso di rendere onore alla sua memoria”. È sfogliando la traduzione in ungherese di Erbstein: The triumph and tragedy of football’s forgotten pioneer che Bertalan Molnar ha scoperto la storia costellata di successi e tragedie di Erno Egri (cognome aggiunto nel 1939) Erbstein, l’allenatore ungherese dalle idee rivoluzionarie che guidò negli anni Quaranta una delle squadre più forti di sempre: il leggendario Grande Torino. “Per noi era un eroe sconosciuto”, confessa Bertalan, giornalista appassionato di calcio, che ha avuto l’idea di far rinascere la prima squadra di Erbstein, il Budapesti Atlétikai Klub, anche noto come Bak. Una squadra dalle radici ebraiche – la maggior parte dei suoi giocatori, tra cui lo stesso Erbstein, erano ebrei -, nata nel 1900 e dissoltasi con il comunismo nel 1947. Grazie a Molnar (scherzi del destino, l’allenatore che nel ‘39 sostituì Erbstein alla guida del Torino aveva lo stesso cognome, Ignac Molnar), ora la casacca nerazzurra del Bak è tornata a vivere sui campi di calcio: lui e un gruppo di appassionati locali hanno infatti rifondato un anno fa la squadra, che milita in sesta divisione ungherese e rappresenta un tributo postumo al grande Erbstein.
In Italia il nome di Erno Egri Erbstein è conosciuto, seppur forse il suo contributo al calcio moderno sia meno noto; ancor meno lo sono alcuni dettagli della sua incredibile biografia, raccontata in modo documentato e approfondito dal giornalista sportivo britannico Dominic Bliss, autore del libro capitato tra le mani di Molnar e che presto uscirà anche in italiano. Da questo volume emerge con chiarezza la straordinarietà di Erbstein: un uomo di calcio, di lotta e di cultura. Diciottenne combatte nella Prima guerra mondiale al servizio dell’Austria-Ungheria e torna con il titolo di sergente. Negli anni ’20 sposa il concetto del muscolarismo ebraico teorizzato dal filosofo sionista Max Nordau, in cui l’unione tra atletismo e intelletto rappresentano la risposta all’antisemitismo e a quella retorica che dipinge gli ebrei come vigliacchi burattinai. Sul finire degli anni ’20, appende le scarpette al chiodo e diventa allenatore in Italia (nel mentre lavora anche come operatore finanziario), passa dal Bari, alla Nocerina, al Cagliari e nel ’33 approda alla Lucchese. In quattro stagioni fa salire la squadra di tre categorie, portando la Lucchese in A grazie a una scelta mirata dei giocatori, a una grande abilità di motivatore e schemi innovativi che uniscono la tattica ungherese alla velocità di gioco inglese.
Nel 1938 Ferruccio Novo, intraprendente imprenditore piemontese e proprietario del Torino, lo individua come l’uomo giusto per costruire un progetto vincente per la sua squadra. Il mister della Lucchese accetta, anche per allontanarsi dal vento antisemita che spira forte da Roma verso la Toscana. Le infami Leggi antisemite del 1938 si frappongono però tra il progetto del duo Novo-Erbstein: i due stringono subito un solido rapporto, condividendo il sogno di far diventare il Toro non solo una squadra vincente ma anche un vero e proprio modello di calcio. Prima di essere costretto a lasciare il suo ruolo, il mister ungherese fa in tempo ad instillare un po’ della sua filosofia ai giocatori: ispirato dal filosofo olandese Johan Huizinga e il suo Homo Ludens, il tecnico magiaro intuisce che il gioco è una parte essenziale della cultura collettiva e permette di costruire un mondo temporaneo che al contempo è libero ma con delle sue regole, gestibile. In ritiro, Erbstein invita a organizzare dei giochi, ma non lo considera un semplice divertimento. “Sta insegnando ai propri atleti – spiega Bliss – che, quando decidono di giocare, stanno prendendo in mano il proprio destino”. L’idea, banalizzando molto, è che nella vita come nel gioco ci sono delle regole che non sono modificabili (la dimensione del campo, delle porte, il numero di giocatori) ma all’interno delle quali c’è libertà di azione. Sta ai giocatori scegliere come dirigere questa libertà. Erbstein non andò comprensibilmente a fondo di queste teorie con i suoi ragazzi ma il fatto che vi cercasse applicazione è la testimonianza del suo pensare fuori dagli schemi. Così come il suo suggerire ai calciatori di sorridere: “Sorridete negli spogliatoi e quando andate in campo. Se l’avversario entra duro o l’arbitro sbaglia: sorridete. Se sbaglia ancora: sorridente. […] Se l’avversario vi insulta, vi offende: sorridete!”. Il concetto, portato un po’ all’estremo, è che una squadra che sorride davanti alle avversità manterrà la calma sotto pressione e, aggiunge Bliss, innervosirà gli avversari. “Erbstein in panchina sapeva darci una carica eccezionale” ricorderà Raf Vallone, giocatore del Toro (1934-1939), partigiano, giornalista, attore di fama e altro personaggio fuori dagli schemi. Non è un caso se Erno e Raf stringono un’amicizia che va oltre il campo da calcio (Vallone dirigerà da non comunista l’Unità e sui cui Erbstein scriverà un articolo per presentare nel 1948 la sfida tra Ungheria e Italia). “Prima di essere un grande tecnico, era un uomo eccezionale – dichiarerà Vallone – Il primo a stabilire relazioni amichevoli con i giocatori, non autoritario. Era un rapporto uomo a uomo, non uomo-macchina. Erbstein fu il nostro primo confidente, perfino per le scappatelle. Aveva sempre un buon consiglio per noi”. “I rapporti di cui parlo nel libro, con i suoi giocatori, con i dirigenti, con la famiglia o con i suoi commilitoni raccontano di un uomo capace di ispirare una profonda fiducia” spiega a Pagine Ebraiche Bliss, che da Budapest a Torino, passando per Fiume, Vicenza, Bari, Nocerina, Lucca, ha ripercorso ogni passaggio della vita di Erno – o Ernesto della sua versione italianizzata – e lo ha raccontato con una prosa semplice in una biografia che si legge con la facilità d’un romanzo. Non è uno storico ma un giornalista sportivo, sottolinea, eppure nel suo libro emergono chiaramente non solo le doti di visionario del calcio di Erbstein ma anche quelle umane. “Grazie alla disponibilità delle figlie Susanna e Marta sono riuscito a scavare in profondità di una figura che desta ammirazione: in me ma soprattutto traspare in chi lo ha conosciuto”.
L’atteggiamento paterno, affabile e al contempo sicuro, che porta le persone a fidarsi e farsi guidare da questo quarantenne girovago ungherese, non verrà cancellato nemmeno dai tragici anni della persecuzione antiebraica. Le leggi del ’38 lo costringono a lasciare l’Italia. Dovrebbe trasferirsi in Olanda con la moglie e le due figlie per allenare il Xerxes Rotterdam, ma alla frontiera fra Kleve (Germania) e Nijmegen (Olanda) la famiglia viene bloccata dai tedeschi. “Ho compiuto tredici anni quella notte, in treno. Mia madre e mia sorella mi regalarono una borsetta, già da signorina – racconta Susanna Egri Erbstein, la figlia primogenita – Mio padre mi regalò l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, testo a fronte in latino che avevo cominciato a studiare. Mi raccontò di questo grande filosofo partito dall’Olanda per andare a studiare a Torino, e noi stavamo semplicemente compiendo il percorso inverso. Era il modo per dare un patina di normalità, e quasi di fascino, al nostro viaggio. A mia sorella Marta raccontava che stava andando ad allenare una squadra che si chiamava Xerxes, cioè Serse, il nobile re dei persiani sconfitto a Salamina”. L’episodio – che ancora una volta sottolinea il respiro europeo di un uomo che guarda ben oltre al calcio – Susanna lo ha raccontato a Mattia Feltri, vicedirettore de La Stampa, che ha dedicato a Erbstein una bella e sentita postfazione nel libro 70 anni di invincibili, pubblicato dal quotidiano torinese. Qui Feltri, tifoso granata, ricorda tra le altre cose l’aiuto di Novo al suo ex allenatore, ormai tornato in patria: “Sistemata la famiglia a Budapest, riuscì a raggiungere Torino. Novo lo inventò rappresentante di tessuti nei mercati ungheresi, rifornito dagli imprenditori tessili associati nella proprietà del Toro. […] Nell’ottobre del 1939 fu a Venezia dove due ventenni attirarono la sua attenzione: si chiamavano Ezio Loik e Valentino Mazzola”. Dall’esilio di Budapest dunque Erbstein continua a pensare a come modellare il Torino. Ma la corda della persecuzione antiebraica comincia a stringersi: la famiglia si salva a più riprese in una Budapest sempre più ostile. L’invasione nazista del ’44 fra precipitare le cose: Jolanda e le figlie riescono a rifugiarsi prima nella fabbrica di padre Klinda, uno Schindler magiaro, poi dalla sorella. Erno intanto è impiegato in un campo di lavoro, ma fugge miracolosamente prima di essere deportato verso i campi di sterminio. Al suo fianco, nella rocambolesca fuga, c’è un uomo che ha molte affinità con lui. È Bela Guttman, ebreo ungherese, allenatore di fama mondiale nel dopoguerra, che conosce Erno da tempo: i due si sono incontrati nel 1927 negli Stati Uniti quando Erno è in tour con la selezione ebraica del Maccabi e Bela con quella, sempre ebraica, dell’Hakoah Vienna. Le loro storie si intrecciano e hanno un epilogo – almeno rispetto al periodo della Shoah – fortunato. “Il ’44 di Budapest rappresenta il parossismo della Seconda Guerra Mondiale. Vi sono concentrate le figure del bene e del male del periodo – racconta Feltri a Pagine Ebraiche – Ci sono i Raoul Wallenberg, i Giorgio Perlasca, gli Angelo Rotta (Giusti tra le Nazioni), un giovanissimo Soros, ma arrivano anche gli Eichmann e le croci frecciate. In questa città e in quel momento si concentra tutta la tragedia di quella storia europea. Ed è Erbstein quella storia la porta sulla pelle. È una cosa che mi toglie il fiato”.
Finita la guerra Erbstein torna a Torino. In una città e un paese distrutto dalla guerra e dal ventennio fascista, un sopravvissuto affabile e tenace porta il suo contributo nella ricostruzione di qualcosa che va oltre il calcio. Il Grande Torino di Mazzola, Gabetto, Loik, Ossola, Bacigalupo, Rigamonti, Menti è una squadra fenomenale e irripetibile (arrivano a rappresentare l’Italia nel 48 con 10 undicesimi dei titolari). Gli invincibili sono più di undici giocatori che inseguono una palla la domenica. Il mito che si crea attorno a loro serve a esorcizzare la sofferenza patita, sono il sogno sportivo che scaccia l’incubo della vita reale. Sono il sorriso che persevera e rimane sui volti nonostante l’avversità. Sono la vita fatta a gioco, in cui ci si diverte e si vince. Sono parole che suonano retoriche ma basta leggere i giornali del 5 maggio 1949 per capire che non è così: quando il mito del Grande Torino si infrange su Superga, quando l’aereo che porta i granata a casa cade sulla Basilica, è un’intera nazione a piangere, non solo la città di Torino.
“Soltanto uno sciocco non capisce che il calcio è la rappresentazione allegorica e filosofica dell’eterno romanzo dell’uomo” scrive con invidiabile chiarezza Feltri, ricordando che in quei novanta minuti spesso si proiettano tutte le nostre emozioni. E aggiunge: “Mi piace credere di averlo imparato anche da Erbstein, l’allenatore, lo scienziato, l’artista, l’umanista, questo meraviglioso uomo così immerso, nel purissimo bene e nel purissimo male, nella storia tragica e magnifica del Novecento”.
Una storia che continua nel mito del Grande Torino ma che a Budapest prosegue anche grazie all’impegno di una società amatoriale come il Bak che per il 15 e 16 giugno ha lanciato il primo Torneo Egri Erbstein. “Vogliamo far conoscere il suo esempio umano e sportivo. È un gesto piccolo ma speriamo così di coinvolgere sempre più persone” spiega Molnar, che poi racconta di sentire un’affinità particolare con Erbstein. “Non lo racconto molto ma anche mio nonno, Tibor Herczog, era ebreo. Era un artista e morì nella rivoluzione anticomunista del ’56. È il nostro eroe di famiglia e per questo ho sentito un’affinità personale con la storia dell’allenatore del Grande Torino”. Forse non è casuale. In Erno Ernesto Egri Erbstein troviamo intrecciate tante delle storie dell’Europa moderna: dalle trincee della Prima guerra mondiale agli orrori della Seconda, dalla sofisticata Mitteleuropa all’Italia più popolare, dall’identità ebraica sionista a quella laica e assimilata, dalla passione alta per la filosofia a quella prosaica per il calcio. Una bella e complicata storia, un po’ nascosta, che possiamo sentire nostra.
Daniel Reichel – Pagine Ebraiche maggio 2019
(2 maggio 2019)