I segni del passato sui monti

Giorgio BerrutoPer millenni a segnare le frontiere per l’uomo sono state le catene montuose, i fiumi, i mari, i deserti. Ovunque, e anche in Europa, la stessa Europa che fra poche settimane deciderà il proprio futuro. Proprio mentre ci avviciniamo al voto del 26 maggio è forse il caso di ricordare che le Alpi, che cingono l’Italia con una corona, non molti decenni fa sono state un confine di guerra. Ricordo bene le tante salite sullo Chaberton, l’imponente monte che sovrasta il colle del Monginevro, un massiccio fortificato pieno di strade militari, filo spinato, camminamenti, cavalli di Frisia, bunker, depositi, postazioni di guardia, cunicoli. Un’opera monumentale di cui artefici sono stati gli alpini dell’esercito italiano e di cui troviamo equivalenti ovunque altrove sui due versanti di queste montagne. Sulla vetta a 3130 metri, tra chiazze di neve bluastra e compatta che negli angoli in ombra resistono anche in estate, otto torri di cemento dotate di cannoni con cui dominare il passaggio tra Valle di Susa e Francia. Sul versante francese sull’altro lato del colle, ecco le batterie e le fortificazioni di monte Janus.
Chi frequenta la montagna sa bene che è inevitabile incontrare scenari simili su tutte le Alpi da Ventimiglia a Trieste, anche se oggi ovunque la natura ha cominciato a divorare il cemento, ricucendo le ferite provocate dagli uomini in guerra e nascondendo ogni anno di più sotto l’erba nuova e le rocce le vestigia dei tempi in cui i nostri nonni e bisnonni uccidevano e morivano in nome della patria. La riconquista dei boschi, dei prati e delle pietraie, il ritorno dei lupi, dei camosci e delle aquile non bastano però a cancellare le cicatrici profonde sulle montagne trasformate in confini, le lacerazioni provocate dalle guerre. Dal ghiacciaio dell’Adamello, in Valcamonica, continuano ad affiorare testimonianze della guerra bianca condotta cento anni fa in condizioni al limite dell’incredibile da piccoli reparti specializzati mentre le masse dei soldati si fronteggiavano in pianura sull’Isonzo e sul Piave. Dai ghiacci emergono proiettili, frammenti di sci, gavette arrugginite, treppiedi di mitragliatrici, frammenti di tessuto. Materiali austriaci e italiani. Delle ossa, ogni tanto.
Mario Rigoni Stern ha raccontato tante volte la Grande guerra sull’Altopiano di Asiago, il ritorno a casa e il dopoguerra difficile dei paesi e dei boschi presso i quali era passata la linea del fronte per tre anni e mezzo. Nella “Storia di Tönle” racconta la vicenda di un contadino dell’altopiano che vive a pochi chilometri dal confine che dal 1866 separa l’Italia dall’Impero austroungarico. Tönle fa il contrabbandiere per vivere, ma è di fatto il simbolo della protesta contro l’arbitrio delle frontiere in nome della continuità della natura. In vecchiaia il protagonista ha ancora il tempo di assistere alla devastazione dell’altopiano durante il conflitto mondiale in nome di confini che ha sempre ignorato e superato con leggerezza. Tönle è forse tra i pochi, in quegli anni terribili, a sapere che i boschi di Asiago e del Trentino, del bellunese e della Carinzia fanno parte di un unico ambiente, un unico grande paese che è ridicolo sezionare in tanti piccoli Stati, ciascuno con la propria bandiera, il proprio inno, i propri soldati. Che i monti sono monti, le valli valli, i prati prati. Con o senza cemento e filo spinato messi a segnare una frontiera. Il piccolo contadino dell’altopiano, senza saperlo, è cittadino dell’Europa unita.

Giorgio Berruto

(2 maggio 2019)