Megafoni e pappagalli
Afferma David Bidussa, nell’introduzione critica ad una raccolta di articoli e discorsi pubblici di Benito Mussolini: «Le parole, come le idee, hanno una storia, non camminano da sole. È allora opportuno prestare attenzione a come parliamo. Perché non è vero che il linguaggio è naturale e le parole esprimono “naturalmente” chi siamo. Il linguaggio è sempre artificiale, ovvero è l’effetto e il risultato di una formazione e indicano un’origine. Si tratta di saper riconoscere quella che ci rappresenta o che vogliamo che ci rappresenti». Non c’è bisogno di arrivare agli eccessi radicali per comprendere i rischi che si accompagnano ad una certa medietà: quella della semplificazione, della banalizzazione, soprattutto dell’acquiescenza a registri di pensiero, di condotta, di comportamento che cancellano il pluralismo a favore dell’omologazione. Il linguaggio corrente ne è un indice fondamentale. Per essere più chiari: in queste considerazioni c’è qualcosa del passato che rinvia al nostro orizzonte presente. Il conformismo è il vero fuoco del “fascismo eterno” (categoria mentale prima ancora che politica), ossia di quel modo di porsi dinanzi alla realtà delle cose cercando di sfuggirne le responsabilità. Non è solo la passiva accettazione dei rapporti di forza esistenti bensì il compiacersi di questa dipendenza rivendicandola con le proprie parole. Se la libertà è emancipazione e se quest’ultima è assunzione dei propri diritti come anche di quegli obblighi verso gli altri che da ciò derivano, il suo inverso reciproco è la dipendenza non da un’autorità ma da un capobranco. Una cosa che piacque nel passato e che non è per nulla detto che non debba piacere nel futuro. La questione non è solo politica o istituzionale ma morale e culturale. Riguarda il modo il modo in cui ci vediamo e, del pari, concepiamo gli altri. Concerne anche la credibilità delle istituzioni collettive. Quando quest’ultima declina, allora si aprono gli spazi per il totalitarismo che si offre come soluzione alla loro crisi. La quale si accompagna all’impossibilità di rappresentare il cambiamento, e il disagio che ad esso si lega, con i vecchi ordinamenti. Nel 1919, così come negli anni successivi, in Italia ed in Europa si verificò il declino della democrazia liberale, quella individualista e notabilare, incapace di confrontarsi con una società di massa che oramai era entrata a pieno titolo nell’agone pubblico. Cento anni dopo, in un quadro senz’altro molto diverso da quello trascorso, si registra tuttavia in buona parte dell’Europa la crisi della democrazia sociale, quella che era nata con il 1945, dopo una guerra di distruzione di massa. Su un piano storico non c’è poi molto di sorprendente. Poiché la storia è sempre narrazione del mutamento e della difficoltà di gestirlo. Su un piano politico e sociale, tuttavia, la questione è molto diversa. Poiché rimanda agli effetti che il cambiamento ha su di noi, nel nostro concreto presente. L’indice del linguaggio, ossia delle parole che usiamo, è fondamentale. Rivela quali siano i significati, i valori, Le priorità, i concetti ai quali ci rifacciamo. Anche quando vorremmo invece negare certe evidenze. Se i tempi dello squadrismo inteso come coercizione fisica sembrano essere trascorsi, in quanto la realtà di oggi è molto diversa da quella di un secolo fa, lo squadrismo verbale, l’aggressione tanto gratuita quanto sistematica, è invece una modalità che oramai fa parte quotidiana ed abituale dei nostri rapporti sociali. La prevaricazione si sposa con la sistematica svalutazione di qualsiasi impegno riflessivo. L’esibizione oscena dell’incompetenza si accompagna alla rivendicazione della propria ingiudicabilità, tanto più davanti ai disastri dell’insipienza. Quanto di ciò ci sia, in origine, nella cosiddetta “società civile” e quanto invece vada attribuito alla società legale, quella politica, è una questione di secondaria importanza se si parte invece dalla premessa di una loro reciprocità nella rincorsa al ribasso. Oggi, lo sdognamento (il termine oramai di uso comune per difinire il rendere accettabile nella comunicazione pubblica quello che un tempo era censurato moralmente poiché inaccettabile nei suoi materiali effetti civili) del triviale e della brutalità, è fatto passare come un atto di liberazione. Degli istinti che, come tali, costituirebbero la vera radice dell’uomo, quello “autentico” perché senza fronzoli, ossia senza inutili rivestimenti. Quanto in ciò, in questa disposizione d’animo prima ancora che politica, ci sia dello spirito del 1919, quel “diciannovismo” al quale si richiamava polemicamente un protagonista critico dell’epoca, Pietro Nenni, è quesito da porre a chiunque non voglia farsi al medesimo tempo megafono e pappagallo. In quanto prima o poi ci sarà chi ci giudicherà, ed il parametro sarà quello, assai concreto, della dignità alla quale ci si è attenuti o nei cui confronti ci si è invece letteralmente sbracati.
Claudio Vercelli
(5 maggio 2019)