Cosa ci insegna il Kaddish
Non è facile dire il Kaddish. Bisogna avere uno spirito preparato e soprattutto bisogna essere in grado di non fraintenderne il significato.
Ritorna alla mente un bellissimo libro di una ventina di anni fa, Kaddish, appunto, di Leon Wieseltier. Ovunque andasse, in giro per l’America, Wieseltier cercava ogni giorno un minian per dire il Kaddish per la morte del padre. Per un anno intero. Sconvolgente, per il sentimento del dolore, per l’inflessibile fedeltà alla memoria di un padre, e per una memoria che riesce a trasformare dolore e fedeltà in osservanza religiosa. Di Kaddish in Kaddish, Wieseltier fa un percorso di conoscenza di sé che attraversa tutta la cultura e la storia dell’ebraismo. Affascinante. E inanella verità, sue o dei Maestri, che ti si scolpiscono nella mente con l’effetto di un istante di luce, e ti bloccano lì, sconcertato, col pensiero sulla parola.
Il Kaddish si dice per i vivi, non per i morti.
Rashi era al funerale di una bambina. Si alzò a significare pubblica rassegnazione alla morte di una bambina. Per trarre Dio dall’imbarazzo.
Il figlio proscioglie il padre, ma il padre non proscioglie il figlio.
Il rifiuto del figlio a compiere il suo dovere ricade sul padre.
Al nuovo non è dato di sopravvivere se non in forma di vecchio.
Un’usanza non esige prova.
Rendere il dolore una regola significa farlo abitudine.
Senza tradizione, la rivelazione resta epifania. Non è in grado di ispirare altro che arte.
Loro sono qui perché credono, e io sono qui perché loro credono.
La Torah non è vostra eredità. Non la si eredita, ma la si diseredita.
Due persone guardano un oggetto senza riuscire a vederlo. Una dice: non riesco a vederlo, dunque non può essere lì. L’altra, invece: non riesco a vederlo, devo essere cieco.
Non vi è lutto se non dove vi è chi consola.
Le persone in lutto guidano la preghiera, per via dei loro cuori spezzati. Perché il Re dei re predilige i vasi infranti.
…tra gli ashkenaziti nella santa comunità di Venezia,… quando chi porta il lutto si trova nella casa di culto, è questi a condurre la preghiera…
Penso ogni volta a Leon Wieseltier e al suo Kaddish per il padre quando qualcuno, durante la tefillah, sottrae all’orfano in lutto il suo Kaddish per precipitarsi a recitare un Kaddish di rito. Con l’imbarazzo che prova il testimone di un crimine.
Nessuno ci insegna che le mitzwoth di rispetto del prossimo (ben adam lechaverò) hanno quanto meno la stessa importanza che hanno le mitzwoth rituali. E il Kaddish, con le sue priorità, dovrebbe insegnarci che dobbiamo rispettare l’altro anche, o forse soprattutto, nel dolore del suo lutto.
Continuiamo ad aver bisogno di Maestri.
Dario Calimani, Università di Venezia
(7 aprile 2019)