Dopo Auschwitz
Quando Adorno, nel 1949, dichiarava che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie», non intendeva enunciare un giudizio sul futuro della poesia come genere letterario, ma esprimeva piuttosto un dubbio rispetto alla capacità dello stesso pensiero critico di misurarsi con lo sterminio.
La sua riflessione, tuttavia, è stata spesso ridotta a questo aforisma lapidario del 1949.
Senza mai rinnegarlo, Adorno cercò in seguito di precisarne il senso.
Infatti, nel saggio Meditazioni sulla metafisica, che conclude il volume Dialettica Negativa, precisa: «Forse dire che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia è falso: il dolore incessante ha tanto il diritto ad esprimersi quanto il martirizzato ad urlare. Invece non è falsa la questione, meno culturale, se dopo Auschwitz si possa ancora vivere, specialmente lo possa chi vi è sfuggito per caso, e di norma avrebbe dovuto essere liquidato…».
In altri termini, non è più possibile, dopo Auschwitz, scrivere poesie come si faceva prima, poiché questa “rottura di civiltà” ha cambiato il significato delle parole, ha trasformato la materia stessa della creazione poetica, e tutto questo ci costringe a ripensare il mondo moderno alla luce della catastrofe che lo ha sfigurato per sempre.
Ma se oggi «la Shoah è divenuta inenarrabile, come la si può raccontare? E se dopo Auschwitz ogni forma d’arte sembra essere solo espressione di barbarie, come si può tentare di fare arte dopo Auschwitz e su Auschwitz? Infine, come possono gli artisti affrontare un tema del genere, dal momento che stanno per mancare i testimoni diretti»? Proprio la fine dell’era del testimone ha prodotto un vero e proprio ricambio generazionale che, in mancanza di sopravvissuti, vede oggi protagonisti quegli ebrei di terza generazione, ossia gli ebrei nati tra gli anni Sessanta e Ottanta, figli di chi ha vissuto da bambino la dittatura fascista e l’occupazione nazista.
Tuttavia le espressioni artistiche sulla Shoah sono state tante e varie, ed hanno spesso portato a riflettere i visitatori sull’evento Shoah in maniera critica e responsabile.
Tra queste in particolare due si distinguano per l’originalità e per le modalità controverse di trattare lo sterminio.
Nel 2011 è stato infatti inaugurato un Museo di arte contemporanea a Cracovia, situato nelle sale di vecchie fabbriche di Schindler famose in tutto il mondo, uno dei luoghi fissati nella memoria collettiva e nella storia degli uomini, dei loro crimini ma anche dei loro eroismi. L’idea di trasformare quei luoghi, integrandoli con molti nuovi spazi, in un luogo destinato all’arte, alla cultura, alla contemporaneità non fa che testimoniare come la memoria, certamente da tutelare, possa anche diventare una traccia, un percorso verso il futuro.
Nel 2015, al Mocak, è stata realizzata una mostra temporanea intitolata Polonia-Israele-Germania. L’esperienza di Auschwitz oggi, curata da Delfina Jalowik e Jürgen Kaumkötter.
Nella mostra sono state radunate opere di una ventina di artisti prodotte negli ultimi vent’anni. Il punto di partenza è radicale e per certi versi estremo: Auschwitz, intesa come ex Lager ha oggi è luogo della memoria, quasi il luogo della memoria per eccellenza, anche teatro di celebrazioni ufficiali e gite scolastiche, ma è entrato a far anche parte di un circuito turistico commerciale, si potrebbe pensare ad un “Disneyland dell’orrore”.
Ecco quindi che al centro di una grande sala che ricorda l’interno di una fabbrica, si vede una dozzina di paia di scarpe, forgiate nel bronzo – perché di bronzo sono fatti i monumenti – è scritto nella didascalia, disposte in un cerchio. Ma a contrastare il bronzo e la monumentalizzazione della morte, sono le normali stringhe che legano le scarpe, per ricordare che si trattava di esseri umani, di nostri nonni e nostre zie e non di eroi mitologici caduti in un’epoca remota. L’opera è intitolata Oh, miei amici, non ci sono amici, ed è stata realizzata da Sigalit Landau. Alla fine del percorso si può guardare il catartico video di Jane Korman Dancing Auschwitz. L’artista ha portato suo padre, reduce del Lager e i tre figli nei luoghi della morte. La famiglia, tre generazioni di ebrei, con il papà che indossa davanti a un forno crematorio la maglietta con la scritta Survivor, balla al ritmo della canzone I will survive di Gloria Gaynor. Può sembrare una desacralizzazione, una violazione, ma è un inno alla vita, all’avvenire: non l’oblio, ma il perdono, come strumento indispensabile della memoria.
In un angolo, alla fine della mostra un foglio bianco, con la scritta: Non ho mai fatto un’opera sull’Olocausto, firmato Oskar Dawicki. Come dire: si può fare un discorso attorno ad Auschwitz, ma non su Auschwitz.
Nel panorama dell’arte contemporanea, a lavorare in modo totalmente nuovo e originale su Auschwitz è stato Anselm Kiefer con la sua opera site specific dal titolo I sette palazzi celesti, un’installazione permanente realizzata in occasione dell’inaugurazione dell’Hangar Bicocca nel 2004. L’installazione di Kiefer deve il suo nome ai Palazzi descritti nel Sefer Hechalot o libro dei Palazzi/Santuari, un trattato ebraico del IV-V secolo d.C. in cui si narra in termini simbolici del cammino di iniziazione spirituale di chi intende giungere al cospetto di Dio. Un cammino che implica il passaggio attraverso i cieli, che implica di percorrere i sette palazzi celesti, dei quali si potrà varcare la soglia ogni volta solo eludendo la sorveglianza degli angeli.
Tutto questo è rappresentato in uno spazio di 7000 metri quadrati, dove sorgono sette monumentali torri: Sefirot, Melancolia, Ararat, Linee di campo magnetico, JH&WH, Torre dei quadri cadenti. Sono tutte alte dai 14 ai 18 metri ed hanno la forma di containers per il trasporto delle merci, apparentemente instabili e pericolanti sono realizzate per lo più in cemento armato, al quale si aggiungono elementi diversi: frammenti di vetro, cenere, materie organiche quali arbusti e fiori appassiti, strisce di ferro o zinco con numeri o nomi, stralci di vestiti e bobine cinematografiche realizzate in piombo. A tutto questo si aggiungono rovine, macerie e polvere che generano un senso di dramma e di devastazione. La grandezza e l’imponenza degli edifici va quasi a schiacciare lo spettatore, il quale visiterà le torri con lo sguardo fisso verso l’alto, in silenzio e meditando.
Per Kiefer le sue sette torri rappresentano l’espressione e il simbolo della spiritualità, ma sono anche la sintesi del suo percorso: nato nel 1945, pochi mesi prima della caduta della Germania, Kiefer è praticamente cresciuto in un paese ancora in rovina. Allievo di uno dei maggiori artisti del dopoguerra, Beuys, esordisce in campo artistico alla fine degli anni Settanta con una serie di scatti fotografici e di dipinti.
Il suo intero percorso consiste, però, in un’assunzione di responsabilità e nell’elaborazione di una storia che sente riguardare lui stesso e l’intera umanità. Quest’opera vuole essere insieme interpretazione della religione ebraica, ma anche rappresentazione delle macerie dell’Occidente dopo la Seconda Guerra Mondiale, con cui l’artista invita a riflettere su un presente sempre più precario e discutibile, affermando lui stesso che «Auschwitz non esclude altri Auschwitz».
Eirene Campagna
(8 maggio 2019)