Yiddish, lingua viva

Lingua della nostalgia, lingua di letteratura e comicità, lingua del mondo distrutto dalla Shoah nel passato, lingua di chi quel mondo si sforza di replicarlo in sue molteplici reinterpretazioni lontano dalle terre degli sthetl nel presente. Lingua che ha contaminato l’idioma internazionale per eccellenza, l’inglese, e che spunta con tante saporite parole nella quotidianità reale e sugli schermi di cinema e televisione targati USA. Che cos’è e dove va lo Yiddish, vent’anni dopo l’inizio del terzo millennio? A raccontarlo a Pagine Ebraiche sono quattro esperti che lo vivono in mondi diversi e in aree geografiche diverse, l’Europa, Israele, l’America, e che spiegano come, dove e perché il tradizionale dialetto parlato dagli ebrei ashkenaziti pur di fronte a tante sfide continua a far ridere, piangere, incantare con i suoi capolavori, essere studiato ma anche usato per ordinare una tazza di caffè.
A fotografare il fenomeno della crisi dello yiddish è Anna Linda Callow, docente Lingua e letteratura ebraica presso l’Università degli Studi di Milano e traduttrice da ebraico e yiddish, che nel suo ultimo libro “La lingua che visse due volte” (Garzanti) dedica un capitolo al rapporto tra i due idiomi. “Il problema dello yiddish è la scomparsa dopo la Shoah, di quell’enorme fetta di società che ne fruiva la letteratura e la modernità. Chi invece è rimasto compatto sono le comunità haredi che avversano l’uso dell’ebraico nel quotidiano, anche se pure nel loro caso i confini non sono più rigidi come un tempo, specie in Israele” sottolinea Callow. L’interesse fuori da questo mondo esiste, aggiunge la studiosa, che lo descrive come ascrivibile ad ambienti molto limitati, i circoli accademici, qualche teatro o istituzione, primo fra tutti il Beys Sholem Aleykhem di Tel Aviv. “Ma sono briciole, caratterizzate da un approccio fortemente nostalgico”.
Eppure tra quelle pagine limitate che potrebbero a prima vista sembrare sufficienti a raccontare lo stato dello yiddish nel XXI secolo, qualcosa di muove, e dà nuova linfa a una lingua che prima degli anni bui della storia d’Europa era parlata da undici milioni di persone, e oggi da un numero imprecisato di centinaia di migliaia.
“In occasione del primo anniversario della morte di Leonard Cohen, producemmo un video con una versione della sua Halleluja cantata in yiddish, che conta oltre un milione di visualizzazioni e centinaia di commenti. Ovviamente molti di loro non conoscono lo yiddish. Per noi questo però è un segnale importante perché ci dimostra l’interesse che la lingua e le sue espressioni mantengono anche per il pubblico generale”. Rukhl Schaechter è la direttrice del Forverts, storico giornale ebraico americano. Fondato nel 1897, il Forverts fu nella prima metà del XX secolo un quotidiano di lingua yiddish dal successo incredibile, capace di raggiungere, al suo momento di massima diffusione negli anni Venti, una tiratura di 275mila copie al giorno e di costruire un palazzo di dieci piani come sede nel cuore di Manhattan. Nel dopoguerra, tante trasformazioni: la riconversione in settimanale, il lancio di un supplemento in inglese, il Forward, che divenne poi la testata principale prodotta dall’editore, il debutto online e infine la scelta, dolorosa, di sospendere la produzione dei giornali stampati, sia in inglese sia in yiddish, dopo un paio d’anni di distribuzione con cadenza mensile.
“Grazie a internet, abbiamo molti canali per diffondere i nostri contenuti, mentre l’edizione cartacea veniva letta solo da un numero limitato di abbonati. Così abbiamo i video, sottotitolati, che raggiungono un pubblico molto più ampio degli articoli, in cui comunque inseriamo funzioni quali un dizionario per consentire anche a chi ha un background limitato in yiddish di capirli. Abbiamo lanciato una serie dedicata alla cucina, e un’altra agli oggetti di famiglia tramandati di generazione in generazione, in cui invitiamo i nostri lettori a segnalarci i propri, che pubblichiamo con una foto che accompagniamo a una breve descrizione in yiddish e inglese” racconta Schaechter. Rukhl che lavora al Forverts dal 1998 e lo dirige dal 2016, è figlia d’arte: suo padre Mordkhe Schaechter (1927-2007) fu un importante linguista e yiddishista appassionato. “Con noi figli insistette sempre per parlare yiddish, e lo stesso abbiamo fatto noi con i nostri bambini. Oggi anche loro sono adulti e proseguono la tradizione con i loro figli” sottolinea la giornalista, che ha lavorato, insieme alla sorella Gitl Schaechter-Viswanath, alla realizzazione del “Dizionario comprensivo Inglese-Yiddish” basato sul lavoro che il padre aveva portato avanti per tutta la vita: non solo preservare la lingua, ma adattarla ed espanderla per venire incontro alle esigenze del mondo moderno, coniando o recuperando le parole necessarie per indicare termini come “email” o “infradito”. “Le vendite vanno bene, la gente lo compra, lo usa. E anche questo vuol dire molto” sottolinea Schaechter. Tra i lettori a cui il Forverts si rivolge c’è oggi anche la comunità che per cui lo yiddish rimane la lingua madre: gli ebrei chassidici, che in USA dopo la guerra erano poche migliaia di persone e oggi sono centinaia di migliaia, molti a New York e dintorni. “Ci leggono in molti, soprattutto per trovare contenuti che non potrebbero scoprire sui loro giornali. Abbiamo un blog dedicato a loro, con autori che appartengono alla comunità”.
Se coloro che per decenni hanno costituito lo zoccolo duro della popolazione di lingua yiddish, gli ebrei a più riprese arrivati negli Stati Uniti dall’Europa prima e dopo la Shoah fino al periodo successivo al crollo dell’Unione Sovietica, stanno lentamente morendo, un nuovo pubblico si sta formando nell’ambito di un settore demografico in qualche misura inaspettato: i millenials.
“Molti giovani ebrei oggi cercano nuovi modi di esprimere la propria identità ebraica. Possono essere religiosi o no, sionisti o no, ma lo yiddish è una lingua che li simboleggia e che considerano parte della propria cultura e patrimonio. Infine c’è un nuovo interesse in Israele: se un tempo l’idioma veniva considerato qualcosa da associare solo alla Shoah e alle comunità haredi oggi invece la sua popolarità cresce anche nella cultura mainstream”.
Proprio in Israele vive Claudia Rosenzweig, docente di letteratura ebraica all’Università di Bar Ilan e filologa, esperta di letteratura yiddish. Dello yiddish, Rosenzweig comincia con il raccontare innanzitutto le origini.
“Lo yiddish è attestato nel XII secolo, in Germania, e nel secolo XIV era già lingua letteraria, come ci dimostrano due documenti. Il più noto è il cosiddetto ‘manoscritto di Cambridge’, scoperto nella Genizà del Cairo, e composto nel 1382, contente diverse opere di vari generi letterari, tra i quali poesie su personaggi biblici, una favola, un poema cavalleresco. Il secondo testo, sicuramente ancora poco conosciuto, si è conservato su di una tavoletta di ardesia scoperta nel 2011 a Colonia, in Germania, durante degli scavi. Risale probabilmente a prima del 1349, ed è una novella di argomento cavalleresco, la cui fonte non è stata identificata. Già da queste poche testimonianze che ci sono pervenute in modo fortuito è possibile stabilire che nel XIV secolo esisteva una tradizione letteraria in lingua yiddish”, spiega Rosenzweig. “A partire dal XV secolo lo yiddish è diffuso in Boemia e Moravia, Polonia, Lituania e in Italia settentrionale. Nel XVI secolo l’Italia diventa un centro importante della cultura ashkenazita e quindi anche della lingua e della cultura yiddish. Negli ultimi anni si sono succeduti vari studi che hanno messo in luce l’importanza della ‘fase italiana’ dell’ebraismo ashkenazita non solo per la letteratura yiddish, ma anche per quanto riguarda la letteratura rabbinica tout court. Dal XVI secolo in poi, grazie soprattutto alla stampa, si è creata una sorta di koiné yiddish, una klal-shprakh ante litteram, che era compresa da tutti i lettori e che ha contribuito a mantenere in contatto le varie comunità, da Venezia a Praga, da Cracovia a Francoforte ad Amsterdam. Fino alla Haskalà, l’Illuminismo ebraico, questa lingua scritta è stata di fatto Yiddish occidentale, che è più vicino al tedesco. È chiaro che dialetti yiddish sono esistiti da subito, ma è solo intorno al 1800 che hanno cominciato a comparire sul mercato libri stampati in Yiddish orientale, che è lo Yiddish di Mendele Moykher Sforim, di Sholem Aleykhem e Bashevis Singer, ed è anche quello ancora parlato oggi”.
Ma chi sono oggi coloro che scelgono di approfondire la lingua yiddish in ambito accademico?
“I miei studenti possono essere raggruppati in tre categorie: pensionati che vengono da famiglie ashkenazite; persone che a distanza di anni dalla fine del BA decidono di fare un Master; e infine quelli che io chiamo ‘studenti professionisti’, cioè giovani che hanno studiato Yiddish (moderno) e che decidono di seguire un corso o due di letteratura yiddish antica. In realtà ho pochi studenti, alcuni dei quali si spaventano quando cercano di leggere lo yiddish del XIV o del XVI secolo, che è naturalmente diverso dallo yiddish moderno. Inoltre, spesso devono fare uno sforzo per difendersi dal rischio di anacronismi vari, e cioè dal dare per scontato che la cultura yiddish a Worms o a Venezia nella prima età moderna fosse identica a quella degli shtetlekh della Zona di Residenza dell’Ottocento. Questo è anche legato ad una realtà come non cessa di sorprendermi: il 99 per cento di quelli che si interessano di yiddish sono ebrei di famiglie provenienti dall’Europa Orientale, e quindi il loro è quasi sempre uno studio motivato dalla biografia personale, e non dal desiderio di studiare una cultura che ha una sua importanza. I miei corsi sono un tipo di sfida: cerco di mostrare attraverso i testi che esiste una cultura yiddish, che va studiata in modo scientifico, letterario, filologico, molto più vasta di quello che si pensa, la cui rilevanza è oggettiva e pertanto può rivolgersi a tutti, ebrei ashkenaziti e sefarditi, ebrei e non-ebrei. Una delle mie migliori studentesse è stata una giovane musulmana religiosa, e mi sono scoperta a fantasticare che un giorno tra gli studiosi di yiddish ci fosse una donna palestinese. Intanto per i miei studenti è già strano che ci sia una italiana che insegni yiddish”.
Rosenzweig contesta in parte l’idea che la crisi della lingua sia un fenomeno da ascrivere esclusivamente al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, e sul futuro esprime ottimismo: “Lo yiddish era già in crisi prima della Shoah: negli Stati Uniti molti ebrei sono passati, gradatamente, a parlare inglese, mentre i sionisti in Terra d’Israele facevano una guerra accanita allo Yiddish, la ‘lingua dell’esilio’. E tuttavia lo yiddish è ancora parlato, e lo parlo anch’io (con accento italiano). A volte insegno in yiddish, e ho amici e colleghi con i quali lo yiddish è la naturale lingua di comunicazione. Sul futuro dello yiddish non mi interrogo, ma è indubbio che quando si parla di ‘rinascita’ bisogna fare attenzione: è vero che la musica klezmer ha sempre più successo, e la serie televisiva Shtisl, ambientata nel quartiere di Mea Shearim a Gerusalemme, ha contribuito a cambiare nella società israeliana il modo in cui sono percepiti la comunità ultraortodossa e la lingua yiddish; e tuttavia queste sono espressioni naturalmente parziali della cultura yiddish. L’unico fattore che può cambiare qualcosa è lo studio della lingua. Il ruolo di vero e proprio insegnamento della lingua è svolto dagli insegnanti del Beys Sholem Aleykhem, a Tel Aviv, e delle Università israeliane, dove purtroppo però – va ricordato – le materie umanistiche hanno una presenza sempre più ridotta. Lei mi chiede se la lingua è destinata a morire. Già negli anni ’40 del secolo scorso Bashevis Singer diceva che lo yiddish non aveva futuro, ma io personalmente credo fermamente che le uniche lingue che muoiono sono quelle che non sono più decifrabili. Fintanto che una lingua è leggibile, e che può dirmi qualcosa, che sia l’egiziano dei geroglifici o lo yiddish, essa non può morire”.
Infine pare che lo yiddish conosca una rinascita anche nei luoghi da cui tutto partì, e da cui quella cultura e popolazione fu tradita: l’Europa. A raccontarlo a Pagine Ebraiche è Alan Bern, artista, musicista e fondatore (americano) di una delle più importanti manifestazioni in lingua yiddish del mondo, nel cuore del Vecchio continente, in Germania, l’Yiddish Summer Weimar, che si svolge ogni anno nella città tedesca nel mese di luglio.
“Nel 1999, la Germania mi invitò a organizzare un week end dedicato alla musica e cultura yiddish nella città di Weimar. All’epoca io e i miei colleghi eravamo soliti tenere questo tipo di workshop in tanti posti nel mondo, quindi non avrei mai pensato che questa particolare iniziativa si sarebbe evoluta nel più grande festival sul tema a livello internazionale. Io ho sempre considerato la cultura yiddish come parte della vasta matrice transculturale che include non solo l’Europa ma anche il Medio Oriente, il Nord Africa, il Nord e Sud America, persino parti dell’Asia. Ogni anno scegliamo un tema speciale che consenta un focus capace di abbracciare diverse parti di questo spettro e ogni anno rimaniamo sorpresi da ciò che scopriamo. Il nostro approccio è sempre stato quello di invitare insieme artisti apprezzati, studiosi e ricercatori e di consentire a questa sinergia di condurre a un’atmosfera creativa dove ciascuno possa sentirsi partecipe, dai dilettanti ai professionisti,” spiega Bern. In ogni edizione del festival, vengono offerti una dozzina di workshop, che attirano partecipanti da oltre due dozzine di paesi al mondo, diversificati dal punto di vista di religione, età, nazionalità e persino orientamento di genere. “La diversità è un riflesso diretto dalla storia culturale dell’yiddish, la accogliamo calorosamente e la incoraggiamo – sottolinea l’artista – A questi laboratori registriamo circa 300 partecipanti. In parallelo però teniamo oltre cento concerti ed eventi nel corso di cinque settimane, che attirano un pubblico di oltre 10mila persone, dall’Europa e dal mondo”.
“Le stime ci dicono che nel mondo ci sono tra 600mila e un milione e mezzo di persone che parlano yiddish. È la lingua primaria delle comunità chassidiche, i cui numeri crescono rapidamente, e c’è un ritorno dell’idioma anche tra coloro ebrei laici o comunque non appartenenti a quei gruppi, così come tanti lo imparano al di fuori del mondo ebraico. È improbabile che torni a essere la lingua transculturale della maggioranza delle comunità ebraiche. Tuttavia sono sempre di più coloro che scoprono come lo yiddish rappresenti una finestra unica su mille anni di storia europea e offra comprensione e prospettive preziosi e rilevanti a tutti noi”, conclude Bern. “Poiché sempre più persone realizzano che non si tratta un’esotica lingua/cultura morta, ma invece di un fiume che scorre attraverso il tempo e lo spazio a creare un legame con tutta le culture e le società del mondo, ritengo che in futuro saranno sempre di più coloro che si faranno dare un passaggio dal fiume, innamorandosi di ciò che scoprono”.

Rossella Tercatin

(Nell’immagine la sede del Forverts)

(10 maggio 2019)