Periscopio – La solitudine di Israele

lucreziHo avuto il grande onore di partecipare, insieme a Stefano Jesurum, a un dibattito, moderato da Barbara Notaro Dietrich, sulle recenti elezioni israeliane, organizzato presso il Museo Ebraico di Bologna. Sono sinceramente grato alla Direttrice del Museo, Vincenza Maugeri, di avermi dato questa opportunità, che mi ha permesso di esprimere in modo articolato alcune mie valutazioni – che hanno in parte ripreso e approfondito alcune considerazioni già accennate, negli ultimi tempi, su queste colonne – e, soprattutto, di molto apprendere dalle parole di Jesurum – opinionista verso cui ho sempre nutrito una grandissima stima, che è ulteriormente cresciuta dopo l’incontro di ieri -, di Notaro Dietrich e di molti dei partecipanti con cui ho avuto la possibilità di confrontarmi, sia in pubblico che in privato.
Non è possibile, in questo breve spazio, rendere conto dell’ampiezza della discussione e delle molteplici osservazioni che ho avuto modo di ascoltare, molte delle quali saranno oggetto, da parte mia, nei prossimi tempi, di adeguata meditazione. Mi limito pertanto a svolgere una piccola considerazione personale, su un sentimento, piuttosto amaro, collegato alla parola “Israele”, che mi accompagna ormai da parecchio tempo, e al quale – come ho detto ieri – potrei dare il nome – in verità, piuttosto riduttivo, trattandosi di uno stato d’animo alquanto sfumato, articolato e complesso – di solitudine.
Ricordo bene quando, ancora bambino, nacque in me l’interesse per quel piccolo, strano Paese, sollecitato dalla particolare sensibilità e cultura di mio padre, che me ne parlava frequentemente, con grande ammirazione. Quando ero in terza media avevo un compagno ebreo di eccezionale bravura, che veniva dalla Romania. Si chiamava Niki. A volte studiavamo insieme, ed ero affascinato dal fatto che, oltre a parlare correntemente l’italiano, benissimo l’inglese, a tradurre perfettamente il latino, colloquiasse con i suoi familiari in una lingua strana, di cui non capivo una parola. Ricordo che gli chiesi, una volta, se fosse rumeno, ma mi rispose di no, era un’altra lingua, non ricordo quale. Ai primissimi del giugno del 1967, senza nessun preavviso, senza, per la fretta, poter salutare nessuno, lasciarono l’Italia, per andare a soccorrere il piccolo, strano Paese. Avevo dodici anni e mezzo, e colsi subito – a differenza, credo, di molti miei compagni di classe, e forse anche di qualche professore – il collegamento tra le tragiche vicende di cui parlavano i giornali e la partenza di Niki. I miei compagni si chiedevano quando sarebbe tornato, ma io capii bene che non sarebbe tornato mai più.
Da quel giorno, non ho mai smesso di seguire le vicende di quel fazzoletto di terra, e ho anche preso, per mai più smettere, ad amarlo. Amarlo di un amore silenzioso e discreto, fatto di premura, gratitudine, stupore, e rafforzato dalla percezione di quella dura, palpabile solitudine che pareva avvolgerlo in tutte le fase cruciali e importanti – in pratica, quasi ogni giorno – della sua esistenza. Come era stato lasciato solo, il 5 giugno del 1967, di fronte ai suoi nemici, Israele sarebbe rimasto solo innumerevoli volte, negli anni successivi, come “ebreo tra le nazioni”.
Questo amore mi ha dato tanto, e certamente ha contribuito moltissimo alla creazione di una mia identità culturale, ideale e morale. Ma si è anche, molto spesso, accompagnato, appunto, a un sentimento di solitudine, che mi ha pervaso in tanti contesti, in tante discussioni, quasi tutte le volte che ho sentito descrivere i problemi del Medio Oriente – con una faziosità spesso spudorata – sugli organi di informazione e nei pubblici spazi del dibattito politico e culturale.
Non voglio certo fare la vittima, sono felicissimo della mia vita, ma tutti gli amici di Israele sanno bene che, come Israele è solo, anche i suoi amici si trovano spesso ad esserlo.
A questo antica sensazione di solitudine, però, se ne è andata ad aggiungere un’altra, di tipo diverso, in quanto ho percepito, negli ultimi anni, che il volto della patria degli ebrei sta cambiando, e, soprattutto, sta cambiando quello dei suoi amici. Il mio amore per quella terra è sempre coinciso con un amore per delle semplici, ingenue parole, che proprio in essa, secondo me, trovano le loro radici. Parole come diritto, giustizia, libertà, solidarietà, pluralismo, tolleranza, dubbio, idealismo, umanesimo, poesia, silenzio. Le parole dello Shir ha-Shirìm, dei Salmi, del primo libro dei Re, del Qohelet, dei Midrashìm, dei fratelli Singer, di André Neher, di Yehuda Amichai. Per me Israele è questo. Ma devo prendere atto che la maggior parte dei suoi cittadini, e dei suoi amici, preferisce oggi parole diverse. Un dato, forse, riflesso non tanto dall’esito delle recenti elezioni, ma dal modo trionfalistico ed esultante in cui esso è stato da molti interpretato, come schiacciante affermazione di una sorta di definitivo e irrefutabile pensiero unico. Mi sono trovato, così, a sentirmi spesso solo anche tra chi, in teoria, dovrebbe difendere i miei stessi ideali.
Non avrò mai la presunzione di dire a qualcuno che sta sbagliando, di spiegare quale è, o dovrebbe essere, il ‘vero’ Israele (e la stessa espressione “vero Israele”, com’è noto, è assai pericolosa). E ho dissentito, e dissento tuttora, dalla triste considerazione di un mio fraterno amico, secondo cui il sogno sionista è ormai finito (“non è certo – ha aggiunto – la prima utopia fallita della storia”). Non sono d’accordo, e il mio amore resta intatto. In una solitudine, però, ancora accresciuta.

Francesco Lucrezi

(15 maggio 2019)