Machshevet Israel – Un nome collettivo

Cosimo Nicolini CoenSuona la sirena di Yom HaShoah. Un dovere e un evento collettivo – l’istituzione di questa giornata e la decisione di far risuonare un certo tipo di sirena; il suo effettivo suono e la peculiare azione richiesta: fermarsi da ogni azione – invita a un momento di riflessione, a dei pensieri in foro interiore. Così esortato penso a due persone, dovrei dire: due nomi, dato che di queste so alcuni fatti narratimi o letti. Nomi che ho, in sottofondo, sempre ben presenti, e a cui dedico una qualche attenzione, nella mia testa, in momenti tra loro distinti, ora si avvicinano, a causa del loro infausto carattere comune: l’essere quelli di due tra le vittime a cui quella sirena (obbligo istituzionale, atto collettivo e pubblico) esorta a pensare. Nella Coen (una prozia), già insegnante di tedesco (tradusse tra l’altro in tedesco Manzini, mi ragguaglia mia madre per tramite degli studi della signora Funaro di Firenze), dai locutori della lingua cui aveva dedicato passione e studio si sentì impartire gli ultimi ordini, ad Auschwitz. Abram Lèon, già militante della sinistra sionista, poi giovane dirigente della IV° Internazionale – mai però dimentico della condizione collettiva delle “masse ebraiche”, come scriveva, di cui pensava l’emancipazione a un tempo sociale e nazionale all’interno di un’economia non più capitalista. Anche Lèon, sappiamo, trovò la morte ad Auschwitz. Il convoglio di Nella Coen partì da Trieste il 00/06/1944 (CDEC). Lo stesso mese e anno in cui, si apprende, venne arrestato Lèon. Come evidente di quello stesso mese ed anno ad ognuno di noi potrebbero venire in mente differenti nomi, rispettivamente conosciuti per ragioni vuoi personali vuoi di interesse storico. Il punto è proprio la valenza del passaggio dalla memoria collettiva a quella individuale. Valenza che si coglie nel moto inverso: dal singolo e personale al, di nuovo, collettivo e pubblico. Qualche momento dopo l’ascolto della sirena leggo su un inserto di Israel Ayom (Israel ashavua) un articolo dove l’autore, riportando la sua esperienza di ‘visita’ a Majdanek, scrive di aver recitato lo “shema Israel” in quello che era il locale della camera a gas. Penso a Nella Coen, ebrea di famiglia laica e di ‘fede’ (per così dire…) risorgimentale. Penso ad Avram Leon, che si definiva marxista rivoluzionario. Dove le esperienze singolari stanno a tante variamente analoghe (quanti laici liberai, quanti variamente marxisti), di persone distanti dalla tradizione. Recitare lo Shemà è certamente legittimo e ci coinvolge, fosse anche soltanto emotivamente. Tuttavia la realtà di Israele, ‘ieri’ in quel frangente, e oggi, è plurale. Varietà della realtà, concreta e ordinaria, che mal si attaglia ad ogni ideale, che va oltre l’identità del nome collettivo ‘Israel’. Si potrebbe dire: rileva solo la realtà – i tanti nomi propri. Oppure, al contrario, rileva l’idea e il nome collettivo: quel nome che il nazismo voleva estirpare. Eppure non solo di contrapposizione tra varietà della realtà e uniformità dell’idea si tratta. L’idea di Israel, ciò che significa questo nome collettivo per ciascuno di noi, si arricchisce anche, lentamente, di quella varietà di esperienze che ogni nome, a noi conosciuto per storia familiare od occasione di studio, rappresenta. Ciò che molti di noi esperiscono in prima persona nell’incontro (metaforicamente parlando) tra l’essere proprio a/di Israel (nome collettivo) e l’esser Israel, l’essere ebrei (nel passato e nel presente) – mette sulle tracce di un rapporto, quello tra idea e condizione materiale, che meriterebbe attenzione. Intanto della questione possiamo notare due valenze. La prima, si potrebbe dire, politica. I nomi propri e la varietà del reale mettono in guardia da ogni retorica. La seconda, teorica. La nostra vita è orientata da ideali e regole – come quelli che possono essere ritrovati nella Tradizione o nel diritto di uno stato e infine, come nell’istituto di Yom HaShoah al crocevia tra i due – e tuttavia il significato di questi è a sua volta riempito, condizionato, dalla nostra prassi, singolare ed eterogenea. Un tema che ci riguarda, all’interno e all’esterno di Israel. In effetti, penso mentre sento parlare ebraico un soldato di Za’al dall’inconfondibile accento arabo, lui (sarà druso?) porterà un’altra esperienza, individuale, quando tra qualche minuto sosterà per la sirena di Yom HaZikaron.

Cosimo Nicolini Coen