Vendita d’armi
Il “Trattato Internazionale sul Commercio delle Armi” (Arms Trade Treaty) è probabilmente destinato ad avere vita breve, brevissima. Ufficializzato nel 2014 con l’adesione di moltissimi Paesi (ma con l’astensione significativa e pesante di Russia e Cina!), ratificato dagli USA solo nel 2016, torna adesso di attualità dato che il presidente Trump intende ritirare l’adesione degli USA allo stesso.
Regolarizzare cosa sia permesso in guerra e cosa no può sembrare a prima vista un’arrampicata sugli specchi. Eppure è cosa importante, perché ragionando in modo pragmatico se la guerra è inevitabile, che almeno si rispettino alcuni principi etici basilari. In una prospettiva ebraica l’evitare il crimine contro l’umanità può vedersi come un risvolto del salvaguardare l’immagine divina con cui ogni uomo viene creato (secondo il Maestro Ben ‘Azài il “principio generale fondamentale della Torà”). In questo ambito rientra anche porre dei limiti a cosa e a chi possano vendersi armi.
Israele ha firmato l’accordo ma non lo ha mai ratificato. Le polemiche attorno alla partecipazione diretta o indiretta di Israele alla vendita di armi e di addestramento a regimi dittatoriali quando non addirittura a privati sono sempre vive e ruotano attorno al dilemma tra interessi dello Stato e l’obbligo morale del popolo ebraico nei confronti dell’umanità. Occorre notare che gli interessi dello Stato includono anche quelli di avere produzione di armi d’avanguardia, cosa che implica fra l’altro la necessità di detenere quote minime di mercato; va altresì detto che questi interessi non sono scevri da pressioni di convenienza che nulla hanno di etico. Il passo talmudico di riferimento è TB Avodà Zarà 15b-16a: si discute sulla liceità di vendere armi a non ebrei (nell’economia del brano, “briganti ebrei” sono inclusi in questa categoria!), proprio per la preoccupazione che questi ne facciano un uso illegittimo. Giova ricordare infatti che il divieto di uccidere è un precetto universale e dunque è proibito a un ebreo facilitare la trasgressione di tale divieto da parte di un non-ebreo. La conclusione del Talmud è che “ai nostri giorni” è permesso vendere armi “ai persiani perché le usano per difendere i propri abitanti, e noi fra questi”. Un permesso dunque piuttosto limitato.
Il principio è chiaro, ed è altrettanto evidente che la sua applicazione pratica ai nostri giorni sia assai più articolata. Un tentativo autorevole in questo senso è quello del movimento Tzohar, una importante organizzazione di rabbini sionisti-ortodossi. Tzohar ha sviluppato nel 2018 una posizione articolata sull’argomento e a cui si rimanda il lettore interessato ad approfondire (Tzohar Position Paper). L’elemento fondamentale, con cui il documento si conclude è che: “Lo Stato Ebraico deve prendere parte allo sforzo mondiale per ridurre il commercio di armi con elementi che non sono fedeli alle convenzioni internazionali in questo campo. Ci sono considerazioni molto complesse in questi contesti, e a queste dobbiamo aggiungere la considerazione etico-morale”.
Rav Michael Ascoli
(21 maggio 2019)