Cosa ci dice il voto

Terminavo il mio ultimo intervento, la settimana scorsa, auspicando per le elezioni europee una resistenza delle forze anti-sovraniste in grado di scongiurare la deriva dell’UE e di contenere quella, innegabile, del nostro paese. È presto per dirlo, ma stando alla distribuzione dei seggi del Parlamento europeo, forse le cose sono andate proprio così: la tenuta, in alcuni casi il successo degli schieramenti progressisti/liberali/moderati e la forte crescita dei verdi – tra loro potenziali alleati – potranno impedire che il previsto incremento populista/sovranista metta in pericolo gli equilibri di una politica europea unitaria e tendenzialmente “aperta” rispetto alle emergenze internazionali e alle relative crisi umanitarie. Il rischio però, al di là dei gruppi parlamentari, sembra piuttosto poter giungere dall’interno del fronte teoricamente “moderato”. Viktor Orbàn ha trionfato in Ungheria, con il 52,33% dei voti; ma il suo “Fidesz” – per quanto schierato con i Popolari – appartiene a piano titolo al gruppo dei movimenti sovranisti europei e il leader già preannuncia di essere intenzionato a lavorare con tutti quelli che vogliono bloccare il fenomeno migratorio. Insomma, pare essere il classico “cavallo di Troia”, eventuale prezioso aiuto per Marine Le Pen e Matteo Salvini nel loro prevedibile tentativo di imporre all’Europa un mutamento di rotta. Qualcosa del genere potremmo forse dire per la Polonia di Jaroslaw Kaczynski, non schierato col gruppo sovranista “Europa delle Nazioni e delle Libertà”, ma alfiere (entro “Conservatori e Riformisti Europei”) di un conservatorismo accentratore e nazionalistico piuttosto vicino alle posizioni destabilizzanti; e magari anche per l’Austria di Sebastian Kurz, certo cattolico e “popolare” ma da sempre inflessibile sentinella dell’inviolabilità dei confini nazionali. Insomma, a livello di istituzioni parlamentari e di orientamenti generali il rischio di assistere a una metamorfosi dell’incompiuta Unione Europea in una sorta di Associazione di Stati nazionali sovrani ed ermeticamente sigillati appare scongiurato. A uno sguardo ravvicinato, però, la situazione si mostra più variegata e dunque incerta: non c’è stato uno sconvolgimento sovranista, ma l’assemblea europea è nel complesso più nazionalista, ed aumenteranno le opposizioni a una politica autenticamente comune.
Inserito in tale contesto, l’esito delle elezioni in Francia e in Italia è ancora più preoccupante. Il Rassemblement National di Marine Le Pen è ormai il primo partito, per quanto “En marche” di Emmanuel Macron sia sostanzialmente appaiato. Più che il dato europeo (i due schieramenti ottengono 23 seggi a testa) è il significato nazionale a inquietare: la Francia, da più di due secoli punto di riferimento – certo controverso e contraddittorio – degli ideali democratici, appare oggi spaccata in due, e il primo partito è un partito di fatto fascista, erede di una precisa ideologia antisemita. Un movimento che raccoglie l’appoggio di una massiccia insoddisfazione popolare (o meglio populista), pronta a esprimersi in maniera irrazionale e distruttiva nella violenza dei gilets jaunes. Ma è disagio popolare anche quello delle banlieue parigine che porta settori del mondo musulmano locale a divenire strumento del terrorismo islamista. La Francia rischia così di essere messa in ginocchio da due estremismi autoritari e distruttivi. Sempre più precaria, in questo clima, diviene la situazione della popolazione ebraica, in alcuni casi schiacciata tra due minacciose pulsioni antisemite. Ben si comprende dunque l’ondata di Aliyot che ha caratterizzato il paese negli ultimi anni: una tendenza che se da un lato rassicura rafforzando il ruolo assunto da Israele per l’intera diaspora, in un’altra ottica mette profonda tristezza perché svelle dal cuore dell’Europa l’ebraismo francese, una delle sue componenti di più ricca e antica tradizione.
Qui in Italia, la precarietà verso cui pare indirizzato l’ebraismo francese non può che generare profonda preoccupazione. Preoccupa che settantaquattro anni dopo la fine della seconda guerra mondiale un partito di estrema destra – che non si definisce fascista ma in molte sue espressioni non appare lontano dal fascismo – vinca nettamente una prova elettorale. Preoccupa che questo avvenga nonostante la diffusa consapevolezza che proprio da un anno a questa parte, grazie a una continua opera informativa in occasione dell’80° dalle leggi antiebraiche di Mussolini, il paese sembrava aver finalmente acquisito, sia rispetto alle responsabilità del fascismo nella Shoah, sia rispetto alla componente razzista insita in ogni governo nazionalista orientato alla chiusura nei confronti dello straniero e del “diverso”. Preoccupa che al centro dell’attenzione politica e mediatica venga con sempre maggior clamore catapultato un individuo il quale, pur dissimulando questa tendenza, finirà con l’acquisire il crescente e inquietante potere del capo carismatico. Preoccupa che tale capo carismatico sia già adesso, e sia destinato a essere sempre più, l’arbitro delle vicende politiche italiane. Il brivido di una situazione già trascorsa ci corre lungo la schiena. Speriamo che stavolta le ambizioni del capo carismatico – non legate oggi al dominio imperialistico ma più prosaicamente al condizionamento populistico – si infrangano contro le istituzioni democratiche italiane ed europee.

David Sorani

(28 maggio 2019)