Mosè l’egizio
Per l’ebraismo e per la cultura europea che in esso ha una delle proprie sorgenti, l’Egitto per molti secoli ha rappresentato quello che la tradizione ebraica non riconosceva come proprio e rifiutava. Tornare in Egitto significa tornare in schiavitù, indica idolatria e falsità. Alla verità, rappresentata da Israele, corrisponde la menzogna incarnata dall’Egitto e da questa distinzione primaria discendono numerose altre coppie di opposti irriducibili. Nel volume “Mosè l’egizio” (Adelphi) l’egittologo Jan Assman circostanzia questa opposizione – la “distinzione mosaica” – ricostruendo una mnemostoria dell’antagonismo religioso, cioè una storia della memoria collettiva a partire dal confronto simbolico tra Israele ed Egitto.
Di questa storia della memoria è Mosè la figura cardine, quella su cui converge la domanda centrale: Mosè ebreo o Mosè egizio? Non ci sono testimonianze risolutive sull’esistenza di un Mosè storico, che invece è stato ed è ancora un riferimento come figura della memoria. E’ in questa dimensione di figura della memoria, scrive Assman, che Mosè è guida del popolo ebraico fuori dall’Egitto, nel deserto, dove si fa propugnatore di una controreligione che esclude tutto il resto come “paganesimo”. Nello spazio senza immagini del deserto si configura il rifiuto di quello che non è Israele, il rifiuto cioè dell’Egitto, la terra dei vitelli d’oro, degli idoli e della vita dopo la morte.
Ma fino a che punto la distinzione mosaica è irriducibile? Non c’è modo di riferirsi a Israele ed Egitto se non nei termini di due mondi contrapposti? Se l’Egitto è pensato come simbolo della falsità, l’unico modo a disposizione di chi è deciso a uscirne è quello della conversione radicale; se invece viene inteso come origine della verità – che giunge a pieno sviluppo con l’esodo, cioè la scelta del deserto – allora possiamo pensare a una educazione graduale, a uno sviluppo. La tradizione egittofila diffusa in Europa a partire dal Rinascimento cerca di decostruire il ricordo e proporre una serie di controstorie con lo scopo di rivalutare l’Egitto. Dai lettori dei testi ermetici che elaborano un curioso panteismo esoterico originario alla religione razionale e universale dei deisti, dal dibattito sul Dio natura di Spinoza all’egittomania esplosa nel tardo Settecento di cui è esempio celebre “Il flauto magico” di Mozart e Schikaneder. Tutto cambia nel primo scorcio del secolo XIX con la decifrazione dei geroglifici da parte di Champollion, che consente la fondazione dell’egittologia come disciplina accademica. C’è tuttavia ancora posto, con Freud, per un ritorno inaspettato di questa tradizione.
Se Mosè è egizio, ecco ridursi la distanza, ecco ricucirsi la distinzione. È questo, senza dubbio, l’intento tra gli altri di Freud, che offre un contributo certamente insufficiente ma non ignorabile alla storia della memoria ebraica e a quella dell’antisemitismo. La figura di Mosè egizio è inoltre analoga per molti aspetti a quella dell’ebreo Paolo nel recente e fruttuoso dialogo ebraico-cristiano. Come nel Paolo studiato da Jacob Taubes, che rappresenta ciò che è comune a ebraismo e cristianesimo, così nel Mosè egizio vediamo stemperarsi l’intraducibilità culturale e il rifiuto dell’Altro. Diversamente, da un punto di vista cristiano la distinzione e l’opposizione, spostata nei termini di un “Antico” e di un “Nuovo Testamento”, è stata per secoli e molto spesso è ancora la regola.
A questo punto mi sembra evidente come sia il dibattito stesso su Mosè e l’Egitto ad andare verso la riduzione e eventualmente la cancellazione della distinzione mosaica, mettendo in gioco le impalcature stesse di culture e tradizioni. Al Mosè ebreo corrisponde infatti evidentemente il Dio liberatore di un popolo – il suo popolo – dall’Egitto; al Mosè egizio il Dio creatore del cielo e della terra, Uno-origine-provvidenza.
Giorgio Berruto
(30 maggio 2019)