La lingua del populismo
Politica coi social media, politica dei social media. Argomento oggi assai dibattuto. Tre mi paiono le caratteristiche dirompenti del nuovo medium politico: la velocità/immediatezza della comunicazione, la personalizzazione del messaggio come arma propagandistica del leader, l’invasione/occupazione del dibattito. Ma non ci vuol molto a rendersi conto che la rapidità di trasmissione è quasi tutto, e oltre in genere c’è ben poco; ovverosia, per citare Marshall McLuhan, “il medium è il messaggio”. Perché la quasi totalità dei colpi di twitter o cinguettii che dir si voglia – ormai punto di riferimento costante di tutti i TG – sono solo elementari e semplicistici “pensierini” lanciati sul web in tempo reale, impressioni private rese pubbliche per moda, che nelle manifestazioni più innocue potremmo paragonare ai simpatici e un po’ banali motti dei “Baci” Perugina. Purtroppo però nella gran maggioranza dei casi questo inaridimento espressivo si trasforma in battuta di dubbio gusto, in accusa gratuita e violenta, capaci di snaturare e far perdere spessore al linguaggio del nostro tempo.
Quali sono gli aspetti più vistosi di quella che potremmo chiamare “degenerazione linguistica da social” e che tanto avvelena l’odierna scena politica dominata dal populismo? Innanzitutto il trionfalismo, la tendenza diffusa a usare slogan a buon mercato e immagini ad effetto per rivendicare in modo esclusivo eventuali successi individuali; poi la carica distruttiva “ad personam” con la quale spesso si aggrediscono gli avversari trasformati in nemici, virtuali e non solo; la genericità e la vacuità dei riferimenti a un “popolo” anch’esso generico e di fatto inesistente, tratteggiato come portatore di diritti esclusivi e superiori (“Prima gli italiani!”), blandito con promesse/assicurazioni impossibili e talvolta inique; l’autoesaltazione da stadio per la presunta certezza di essere nel giusto, che mira all’annullamento dell’altro e nasconde – ma non troppo – un vuoto di cultura e di ragione (come dire: il tifo da stadio al posto del raziocinio).
L’ “effetto social” – al di là delle funzioni potenzialmente utili di questi mezzi – può farsi ancora più inquietante. E’ sotto gli occhi di tutti come in particolare su Facebook lo spazio libero per lo sfogo individuale semi-pubblico divenga facilmente irresistibile tentazione di prodursi in immotivate e feroci invettive contro singoli o gruppi, che finiscono spesso col ritorcersi contro i loro autori.
Sempre più limitate, per contro, sono oggi le aree di dibattito politico serio: alcuni settori di ben pochi partiti, non molti giornali, pochissime reti televisive. Per il resto i progetti calati nella realtà socio-economica, le riflessioni articolate, gli approfondimenti al di là della notizia, le analisi critiche, gli scavi di comprensione sembrano scomparsi; circolano molte “parole al vento”, per dirla con Bob Dylan. Fuori dalle poche isole di costruzione e interpretazione consapevoli, pare che l’importante non sia più capire ma solo colpire, tanto l’avversario quanto il lettore-spettatore. E ad avvolgere il tutto è spesso un impasto di stereotipi, volgarità e violenza.
Dietro a una simile diminuzione di livello non c’è, è evidente, una responsabilità primaria dei media. Gli strumenti restano tali e sono solo il terreno propiziatore di un diffuso imbarbarimento della lingua della politica, che riflette una effettiva perdita di capacità politica e si adagia sullo strapotere della tecnologia per servirsene come espediente, senza riuscire a impiegarla in modo costruttivo.
Due mi paiono i pericoli incombenti su una situazione già così degenerata e che sembra ancora peggiorare: da un lato l’ “effetto-virus”, capace di diffondersi in zone politiche sinora immuni o più resistenti alla “sindrome da social” (o sindrome populistica, se si preferisce); dall’altro la possibilità non poi così peregrina che, grazie alla martellante propaganda, la falsa immagine di “popolo” compatto e arrabbiato inventata a tavolino dai populisti a suon di slogan e twitter esclusivisti finisca con l’acquisire reale esistenza, come la xenofobia davvero montante e il recente orientamento elettorale sembrerebbero dimostrare.
David Sorani