Periscopio – Una forma di coraggio e verità
Il mio piccolo contributo settimanale pubblicato lo scorso mercoledì 22 maggio era dedicato al tema della solitudine. Una condizione amara, molto diffusa, indissolubilmente legata alla stessa natura umana, complessa, ambigua e ruvida come la vita stessa. Nel momento della nascita, si può dire, l’uomo – ma, forse, ogni creatura vivente – è consegnato alla solitudine. L’amore, l’amicizia, l’arte e tutte le altre attività umane sono, fondamentalmente, un modo per fuggirne; ma, spesso, anche un modo per farvi ritorno.
In un breve racconto, dalla rara capacità suggestiva, il grande psicanalista e scrittore ebreo americano Irvin D. Yalom (autore di libri di grande successo, quali Le lacrime di Nietzsche, Il problema Spinoza e tanti altri) riesce a dare una chiave interpretativa di grande originalità e forza poetica dell’eterno problema della fuga dell’uomo dalla solitudine. Un problema che il narratore sposta, dal piano meramente psicologico, a quello linguistico, espressivo, del rapporto tra parole e realtà. Mi riferisco al racconto “Una cura interrotta”, inserito nella bellissima silloge, di recente pubblicazione, “Creature di un giorno” (Neri Pozza editrice). Appena tredici pagine, ma che valgono, da sole, diversi trattati di filosofia.
La trama è questa: uno scrittore in crisi creativa, di nome Paul Andrews, chiede allo psicanalista Yalon (oltre che autore, protagonista e io narrante del racconto) di essere ricevuto per una terapia, avvertendolo però che essa durerà una sola seduta. Accettata l’insolita richiesta, il terapeuta è invitato dal paziente a leggere rapidamente un carteggio epistolare da lui intrattenuto con un professore suo amico, scomparso dodici anni prima, Claude Mueller, nel corso quale i due corrispondenti si intrattengono sulla condizione umana e la capacità dell’uomo di esprimerla con le parole.
Mueller rimprovera Andrews per quello che gli pare un eccessivo amore per le parole, con le quali egli amerebbe giocare e ‘danzare’, ponendo in secondo piano i contenuti. Andrews riconosce la propria ‘colpa’, consistente, appunto, nello sganciare le parole dai loro significati, una scelta che lo condannerebbe alla incomunicabilità, e quindi alla solitudine, che egli afferma di avere “abbracciato per sempre”. Ma per questa ‘danza’ Andrews ha bisogno di “un compagno dal piede leggero”, e chiede a Claude di concedergli l’onore di fargli da partner. Ma Claude continua a non capire l’ostinazione del suo amico a non volere cercare di comprendere il senso della realtà, al di là delle pure parole: “Ancora una volta devo rammentarle l’ammonimento di Socrate che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”. Ma Andrews così risponde: “Se devo scegliere tra la vita e la ricerca, ogni volta sceglierei la vita. La spiegazione è un’illusione, un miraggio, una costruzione della mente, una ninnananna consolatoria. La spiegazione non esiste. Chiamiamola col suo nome: è la difesa del codardo davanti al terrore della precarietà, all’indifferenza e all’imprevedibilità dell’esistenza”.
Il terapeuta, Yalom, capisce che la ‘colpa’ di Andrews, e la sua solitudine, altro non sono che una cruda accettazione del mistero dell’esistenza, che non permette mai di essere chiuso in alcuna spiegazione, in nessuna formula. Capisce, poi, che la ‘danza’ con le parole non è che, essa stessa, una forma di ricerca, ma priva dell’ingenua fiducia di potere mai trovare una risposta appagante. Capisce anche, infine, che, morto da dodici anni Mueller, Andrews va cercando un nuovo compagno per la sua ‘danza’, e avrebbe pensato a lui.
Ma il tempo della seduta è ormai finito. Al momento del congedo, il terapeuta chiede al paziente di una sola seduta quale sia stato, secondo lui, il senso del loro incontro, cosa egli abbia appreso dal loro colloquio, in modo da poterne tenere conto per se stesso e per i suoi futuri pazienti. Che significa ciò che si sono detti? Ma quello che egli chiede è, appunto, una spiegazione, che non c’è. Il paziente saluta, rammaricandosi di non avere il tempo di dare una risposta.
Tredici pagine che aiutano, forse, a capire la “non spiegazione” del Qohelet, e in cui “non senso” il Qohelet, forse, aiuta a capire. Ma tanto dal Qohelet quanto dal racconto di Yalom, a mio avviso, emerge, ineludibile, la domanda di cosa resti da fare, all’uomo, una volta preso atto che la ricerca è inutile, e che la spiegazione non esiste. Jabès ha insegnato che c’è solo la domanda, non la risposta. Ma, nel suo brusco commiato, il paziente Andrews afferma qualcosa di diverso: “il nostro tempo è terminato”. Parole che fanno apparire l’umana solitudine come una forma di coraggio e di verità, la dignitosa accettazione dell’unica certezza che agli uomini è dato di avere.
Francesco Lucrezi
(5 giugno 2019)