Sulle tracce di Sefarad
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La Sefarad c’è ma non si vede. Per questo motivo, indagare sul campo il millennio di presenza ebraica nella penisola iberica, tragicamente interrotto dal famigerato editto di espulsione del 1492 – che diede origine a un’intera stirpe di judios erranti (i sefarditi, appunto) – è ormai un imperativo irrinunciabile. Per fortuna ci ha pensato l’Universitá di Roma Tor Vergata, finanziando uno stimolante viaggio-studio in Andalusia sulle tracce della Sefarad. Si tratta del momento culminante della seconda edizione del Corso di formazione in Archeologia Giudaica, promosso dal CeRSE – il Centro Romano di Studi sull’Ebraismo – e in collaborazione con la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma (SSABAP). Un’iniziativa degna di menzione con gli studenti a caccia dei segreti indicibili di un mondo perduto. Ma il lavoro più grosso bisogna farlo con l’immaginazione. Gli epigrafisti sono a corto di epigrafi; le tracce sono impercettibili. Persino nella sperduta Lucena di Granada, cittadina adagiata nella calura andalusa, un tempo capitale ebraica col nome di Eliossana (D-o ci salva), nota da secoli come la “Perla di Sefarad”. Non una città col classico quartiere ebraico – definito qui, non ghetto ma judería – bensì una città totalmente ebraica e totalmente fortificata, con gitani, mori e cristiani relegati nei quartieri poveri al di fuori della cinta muraria. Sembra fantasia invece è un mondo realmente esistito, dall’VIII al XII sec. e.v. Con i momenti di massimo splendore vissuti intorno all’anno 1000 e.v., quando qui vi era un’Accademia di studi talmudici che ospitò i più grandi intellettuali del tempo, tra i quali i famosi Jehudá ha Leví e Abraham Ibn Ezra. E ovviamente non poteva mancare il Maimonide, che visse proprio a quel tempo e proprio in questi luoghi.
Nella Lucena di oggi, a parte le scritte stradali, lo stemma comunale con tanto di Magen David e qualche piccolo reperto esposto nel locale museo, non ha ufficialmente abitanti di religione ebraica. Ma, a ben guardare, tra una processione cattolica in stile rococò e una mastodontica sedia che accoglie i visitatori all’ingresso del paese – la più grande del mondo appena certificata dal Guinness dei Primati, simbolo della locale e fiorente industria di mobilio – non è raro imbattersi in testimonianze lampanti dell’assoluta e attuale giudaicità del luogo. Ad esempio dando un’occhiata ai manifestini mortuari tipici dei quartieri ortodossi di Gerusalemme (e dell’Italia meridionale) che qui abbondano anche nelle zone più moderne. Ed è tutto un fiorire di cognomi ebraici sefarditi purissimi. Cognomi che ritroviamo in alcune raccolte di cognomastica sefardí, nella piccola ma sincera biblioteca allestita da una volenterosa signora a Granada, nell’antico quartiere del Realejo, che un tempo era abitato in prevalenza da ebrei. In quattro stanze della sua abitazione, la donna, che in realtà è ashkenazita ha fondato un piccolo museo (più piccolo che museo) ebraico a sue spese e con scarso sostegno da parte delle istituzioni. Per preservare la memoria di un luogo simbolo, Granada, in cui di ebraico c’è rimasto poco, o niente. La città da cui i re cattolici emanarono lo sciagurato atto di espulsione era ebraica sin dalla sua fondazione e nell’alto medioevo il suo nome ufficiale era addirittura “Granada degli ebrei”. Anche qui, piccoli indizi sparsi in ogni dove. È venerdì pomeriggio. Nelle vetrine dei forni della città non turistica compare pane intrecciato in bella vista. Sarà un caso. Sabato, poi, è tutto chiuso. Chissà. A Lucena nel frattempo nel piccolo cimitero scoperto di recente si racconta di esami approfonditi sui resti umani, fatti con la supervisione dei rabbini di New York dai quali è venuto fuori un dettaglio sorprendente: le dentature dei defunti presentano incisivi con 4 radici. I dentisti della Lucena moderna, interpellati in proposito rivelano che molti degli attuali abitanti hanno questa insolita caratteristica.
Perché la Sefarad c’è ma non si vede. È nascosta nel DNA.
Damiano Laterza
(5 giugno 2019)