La voce del rabbinato
Ho letto con interesse l’intervista rilasciata da Guido Vitale ad Ha Keillah.
Il mio punto di osservazione dell’ebraismo italiano è particolare: da una parte vivo ormai in Israele da nove anni e dunque non posso pretendere di essere aggiornato su tutto quanto avviene in Italia; dall’altra nell’ebraismo italiano sono cresciuto e a questo mi sento profondamente attaccato. Inoltre, ho conseguito la laurea rabbinica presso il Collegio Rabbinico Italiano e sono iscritto all’ARI, tuttavia la mia attività professionale è da ingegnere e dunque la mia attività rabbinica è esterna alle dinamiche comunitarie.
Premesso tutto questo, dell’intervista colpisce la preminenza data proprio al mondo rabbinico e la conseguente critica di una presenza non soddisfacente dei rabbini sul giornale. Ciò mi porta a ragionare sui seguenti punti.
Spezziamo una lancia a favore dei rabbini: il loro impegno primario è e deve essere nei confronti delle comunità per le quali lavorano, per le scuole e i batè midrash. In questo senso l’obiezione dell’intervistatore era pienamente sensata. Senza nulla togliere all’importanza del giornale e alle opportunità che questo offre; d’altro canto, appunto, le opportunità di comunicazione che il giornale offre ai rabbini vanno utilizzate al massimo. Evidentemente la gente si aspetta di sentire la voce del rabbinato, possibilmente anche in ambiti non strettamente di halakhà (cosa che poi è una contraddizione in termini: la halakhà come noto viene dalla radice andare, procedere: dunque è ovvio che la halakhà ovvero i rabbini debbano occuparsi delle grandi tematiche contemporanee e dei piccoli problemi della quotidianità. Questo restringersi di molte parti del rabbinato a soli problemi cultuali è problema che merita un approfondimento a sé e va ben oltre i confini italiani), e se non se lo aspetta, se cioè “Questo me l’ha insegnato il mio rabbino” non si sente più dire, vuol dire che c’è molto terreno da recuperare. Mi sembra un monito chiaro al mondo rabbinico a farsi sentire di più senza remora di uscire dal proprio campo; quanto sopra non significa che il rabbino, anche avendone la possibilità, debba sempre farsi sentire. A volte infatti è legittimo non prendere posizione e non mancano nel Talmud episodi che possono essere interpretati a favore della “prudenza”.
Sono tuttavia convinto che spesso più che di scelta deliberata si tratta di mancanza di tempo. Occorre allora riflettere sul fatto che non ci sono abbastanza rabbini in Italia e che una parte sempre più cospicua di quelli che ci sono viene dall’estero. Ciò significa che la scuola rabbinica non è sufficiente, ovvero l’attenzione della comunità in senso lato agli studi rabbinici non è sufficiente: a fianco a un interesse crescente per gli “studi ebraici” in senso lato, non è invece abbastanza considerata, stimolata, incoraggiata, incentivata e finanziata la formazione rabbinica in senso stretto. Questo dovrebbe essere un cruccio prioritario per tutti gli ebrei italiani, in particolare per quelli che rivendicano con tanto (giustissimo!) orgoglio la peculiarità dell’ebraismo italiano.
Rav Michael Ascoli
(11 giugno 2019)