Le grandi virtù

Giorgio BerrutoChristopher Isherwood ambienta “La violetta del Prater” a Londra nel 1933. Protagonista è il regista Friedrich Bergmann, “ebreo viennese dalla testa riccia di un imperatore romano” che ha dovuto lasciare la famiglia in Austria, sotto la dittatura clericofascista di Engelbert Dollfuss. Le notizie che arrivano dal continente sono la presa del potere dei nazisti a Berlino; i disordini, i morti per le strade e la repressione del movimento operaio a Vienna; l’ascesa dell’intolleranza e dell’antisemitismo ovunque.
Una sera, mentre cenavamo in un ristorante, un certo Patterson si avvicinò al nostro tavolo […] “Be’, signor Bergmann – cominciò allegramente, con il fatale istinto di chi è completamente privo di tatto – che ne pensa di quello che avviene in Austria?” Mi si gelò il sangue. Cercai debolmente di interromperlo, di cambiare il corso della conversazione. Ma era già troppo tardi. Bergmann gonfiò il petto. I suoi occhi mandarono lampi. Spinse innanzi la testa, attraverso il tavolo, con aria accusatrice: “Che cosa ne pensa lei, dell’Austria, signor Patterson?” Il giornalista fu colto di sorpresa: come capita spesso ai giornalisti, quando si sentono fare delle domande. “Be’… certo… a dire la verità… mi sembra… mi sembra terribile, naturalmente…”.
Bergmann si contrasse, poi scattò verso Patterson come un serpente infuriato. “Glielo dirò io, che cosa pensa. Lei non pensa nulla. Assolutamente nulla”. Patterson batté le palpebre. Ma era troppo ottuso per capire che avrebbe fatto meglio a cambiare discorso. “Naturalmente – disse – non pretendo di essere un esperto in fatto di politica, ma…” “Qui la politica non c’entra. Qui si tratta di esseri umani, di uomini veri, di donne vere. Non di attrici o di puttane sfrontate. Non di celluloide. Non di pubblicità a proprio vantaggio. Ma di carne e di sangue. E lei non pensa niente. A lei non gliene importa un accidente!”
Anche questa volta Patterson non volle demordere. “In fin dei conti, signor Bergmann – osservò in tono di autodifesa, sorridendo del suo sciocco, esasperante sorriso insensibile – non dimentichi che non è affar nostro. Voglio dire, non può pretendere che la gente in Inghilterra debba prendersela per…”. Il pugno di Bergmann si abbatté sulla tavola, facendo tintinnare coltelli e forchette. Con la faccia paonazza, urlò: “Io esigo che tutti se la prendano! Chiunque non sia un vigliacco, un delinquente, un lurido bastardo! Esigo che se la prenda tutta questa maledetta isola! Vuol sapere una cosa? Se la gente non se la prenderà, la costringeranno a prendersela. Tutti voi quanti siete, dovrete prendervela. Verrete bombardati, massacrati, conquistati. E vuoi sapere che cosa farò io allora? Rimarrò tranquillamente seduto a fumare il mio sigaro e starò a guardare ridendo. E dirò: ‘Oh, certo, è terribile; e non me ne frega niente. Proprio niente!’”.
Prendersela: non era comune nel 1933 e non è comune oggi, almeno fino a quando le tragedie che abbiamo di fronte non sono le nostre. È un dovere di ciascuno? O è inevitabile e in fondo anche giusto badare alle cose proprie? Oppure è un’azione supererogatoria, un atto cioè ad alto contenuto morale che, non richiesto, eccede il dovere? È analogo a una norma applicata andando oltre il minimo richiesto, in base al principio della letteratura rabbinica lefanim mishurat hadin? Con Natalia Ginzburg, possiamo forse intendere “prendersela” per qualcuno che non conosciamo e per qualcosa che non ci tocca direttamente come una “grande virtù”. Una di quelle virtù che, a differenza delle “piccole”, non sono comode e hanno bisogno di coraggio, abnegazione e amore per la verità, una di quelle che raramente vengono insegnate ai figli e sono tuttavia le più importanti.

Giorgio Berruto

(13 giugno 2019)