Fra trasformazione e declino
Comunque vadano le cose, di qui ai prossimi anni, alcune considerazioni sui mutamenti di scenario che stiamo vivendo in Europa vanno pur avanzate. Non per fare esercizio di preveggenza e men che meno per accodarsi a quei giudizi precostituiti che sembrano quasi godere delle configurazioni catastrofiste. Ché poi, mentre i secondi si cristallizzano da subito in pregiudizi, i primi rischiano di rivelarsi nella loro natura di gratuite manifestazioni di una falsa opinione, spacciata invece per capacità di analisi. Posta questa premessa cautelativa, rimane il diritto a formulare una valutazione che, partendo dalle cose recentemente trascorse, vada un poco verso quel futuro che sembra già essere dietro l’angolo. L’oggetto è la crisi dell’Europa, qualcosa sul quale sempre più spesso dovremo confrontarci. Poiché le sue involuzioni sono strettamente connesse al cambiamento di paradigma che si è verificato dal momento in cui, a fare dagli anni Ottanta in poi, si è transitati dal compromesso sociale e dall’intervento pubblico (in sostanza, la redistribuzione tra la collettività di una parte delle ricchezze disponibili), gestito dalla politica, alle prassi liberiste che hanno assegnato al mercati la centralità nella riallocazione delle risorse prodotte. L’Unione europea, come transito dalle Comunità preesistenti ad organismo unitario, si definisce proprio in quel lasso di tempo. E nasce e si consolida come del tutto incompiuta, ossia con un’unificazione monetaria a fronte della perdurante disarmonia economica, fiscale, normativa e così via. Un’unica moneta per un circuito di soggetti non solo in origine asimmetrici tra di loro ma anche destinati a mantenere queste distinzioni. Non a caso, le differenze sociali, le sperequazioni, le differenziazioni, non sono state in alcun modo attenuate. Creando o incentivando, semmai, una sorta di meccanismo competitivo all’interno dell’Unione medesima. L’obiettivo – d’altro canto – non poteve né doveva essere un’improbabile “unificazione”, nel senso di omologazione, tra paesi differenti, bensì un’integrazione che, invece, non è mai avvenuta. Né, plausibilmente, avverrà nei tempi a venire. Poiché l’evoluzione e la trasformazione del quadro geopolitico è oramai tale da rendere impraticabile oggi ciò che, a suo tempo, non è stato realizzato. In questo quadro, estremamente complesso perché in movimento costante, la politica europea, concepita dentro un quadro di compatibilità finanziarie e di bilancio pensate perlopiù da gruppi ristretti di tecnocrati, da un lato ha ridimensionato la sovranità statale e dall’altro ha domandato a quegli stessi Stati sui quali ricade, processi di adattamento spesso estranei o scarsamente rispettosi delle loro necessità sociali. La risposta “sovranista” segna quindi non solo l’affaticamento ma anche il progressivo esaurirsi della credibilità di un universalismo liberale europeo concretamente identificato, perlopiù, con le logiche economiche. La vicenda delle migrazioni ne è riscontro, soprattutto dal momento che rivela l’incapacità congenita dell’attuale classe dirigente europea di riuscire a trovare un punto di equilibrio tra un cosmopolitismo che parla solo ai ceti garantiti e le ansie dei territori, abitati dalle popolazioni che non si sentono rappresentate, poiché duramente sottoposte agli effetti dei mutamenti in corso. Il risentimento delle collettività – al di là del suo maggiore o minore fondamento – è il sintomo dello scollamento in atto. La globalizzazione, che per sua stessa natura mette in movimento le idee e le persone, oltre alle cose, sta quindi mandando in frantumi un ordinamento novecentesco. La contraddittorietà tra i richiami ai diritti formali, offerti dalle democrazie liberali, e le crescenti diseguaglianze delle quali molti fanno concreta esperienza, riporta in auge identità religiose, etniche e di gruppo che hanno come comune denominatore il riconoscersi in una rabbia e in un risentimento diffusi. Soprattutto, si articolano intorno ad istanze di rivendicazione senza però che queste diventino una praticabile piattaforma politica. Poiché alla base di esse non c’è altra reciprocità che non sia quella dell’angoscia. Rabbie e risentimenti si orientano contro le élite e le istituzioni, le une e le altre accusate non solo di non riuscire a mantenere le promesse ma, piuttosto, di promettere integrazione senza intendere realizzarla concretamente. Peraltro, buona parte delle organizzazioni politiche esistenti, a livello nazionale come sul piano internazionale, sono il prodotto degli accordi che furono assunti nel secondo dopoguerra e durante la Guerra fredda, rispondendo quindi ad una situazione e fotografando esigenze che nel corso di questi ultimi tre decenni sono mutate enormemente. I processi migratori sono intervenuti clamorosamente in queste dinamiche, sommandosi alla redistribuzione delle produzioni industriali da un continente all’altro. Il populismo odierno raccoglie queste tensioni e le traduce in un’ulteriore contrapposizione tra l’universalismo dei diritti, predicato come precetto tanto insidacabile quanto distante dalla vita quotidiana, e la richiesta pressante di una difesa nazionale degli interessi collettivi proveniente da quelle classi sociali che si sentono direttamente minacciate dai cambiamenti in corso. Anche da ciò si alimenta quindi il senso di disillusione nei confronti dell’Unione europea, vista perlopiù come una camicia di forza, al pari della crescente indifferenza, che si fa a volte diffidenza, nei riguardi delle stesse democrazie nazionali, denunciate come inadeguate al fare fronte alle crescenti disparità. In realtà, il nocciolo della crisi riposa nel declino della sovranità fiscale, ossia nella crescente incapacità, da parte degli Stati, di sottoporre l’economie di flusso della conoscenza e dell’informazione, insieme alla finanza internazionale, ad un’imposizione tributaria capace di catturarne parte della grande ricchezza che producono ma di cui anche si alimentano. La scissione tra territori e benessere si fa quindi, in tale modo, drammatica: i primi sono consegnati all’immobilismo che deriva dal venire emarginati dai mutamenti in atto; il secondo fluisce verso ambiti ristretti di beneficiari o nelle mani di gruppi sociali e nazionali che sono diventati protagonisti della globalizzazione, come nel caso cinese. In questo quadro generale, se si rimane all’interno dello scenario europeo, la manifestazione più eclatante del cambiamento, sul piano politico, è data dalla crisi dei partiti socialdemocratici che, insieme ai popolari, hanno governato per buona parte del dopoguerra il Continente. Nell’Europa occidentale, le socialdemocrazie tra il 2005 e il 2019 hanno perso 25 milioni di voti, mentre i raggruppamenti politici variamente definibili come nazionalisti, sovranisti o populisti ne hanno acquisiti 17 milioni. Un travaso che è corroborato, al di là della stessa dimensione numerica, dall’origine degli elettori, quasi tutti appartenenti alle classi sociali più deboli, quindi alla ricerca di protezione e sicurezza da parte degli Stati. In altre parole, la formula del “compromesso socialdemocratico” (dominante tra il 1945 e il 1975 e caratterizzata dalla regolazione del capitalismo, quando alla produzione crescente di valore si accompagnava un circolo virtuoso tra investimenti, salari e garanzie sociali) si è definitivamente esaurita nei trent’anni successivi. La politica, per così dire, registra questo stato di cose. Ai giorni nostri, i pur complessi sistemi di welfare non sono più in grado di fare fronte alle esigenze dei ceti svantaggiati. Se un tempo era praticabile – in un’economia di crescita permanente – una politica di indebitamento, e se i bisogni collettivi erano affrontabili con misure temporanee, oggi la crescente marginalità dei disoccupati o, più semplicemente, dei working poors (coloro che lavorano anche a tempo pieno senza però avere un salario soddisfacente rispetto ai loro bisogni indifferibili), è sempre più spesso caratterizzata dall’essere un fenomeno di lungo periodo. Per certuni, oramai, è divenuto un fatto permanente. I sussidi hanno un carattere occasionale ed episodico mentre la marginalità diventa un fenomeno esistenziale, destinata a segnare gli individui per tutta la loro vita. La stessa nozione di solidarietà (sociale ed intergenerazionale) rischia di essere spezzata. In una società in evoluzione, che misura su di sé il segno del miglioramento, i carichi di responsabilità attribuiti a chi ha maggiori opportunità e risorse vengono meglio sopportati di quanto non succeda quando invece la situazione è stagnante, se non addirittura in regressione. Un fenomeno, quest’ultimo, che è ulteriormente incentivato dalle differenze culturali quand’esse entrano in gioco. Il rapporto conflittuale con gli immigrati si gioca molto su questo aspetto, poiché per diversi europei che avvertono sulle proprie persone i costi dei mutamenti, diventa maggiormente difficile disporsi nel senso della condivisione delle risorse con quanti concepiscono (non importa se a torto o a ragione) come distanti da sé, al limite di avvertirne una sorta di abusività della presenza sul territorio nazionale e continentale. Perdurando lo stato attuale delle cose, non se ne uscirà molto facilmente. Ovvero, non si troverà una via di mediazione che riesca a tutelare i diritti e gli interessi dei più. Ciò che possiamo sapere fin da adesso è che siamo i figli di un ordine geopolitico e sociale oramai sulla via del tramonto. Ciò che ancora non ci riesce di comprendere è non tanto l’insieme degli assetti a venire quanto la collocazione che noi stessi, e soprattutto i nostri figli e nipoti, potremo disegnarci rispetto al “nuovo mondo”. Fermo restando che il racconto della storia rimane sempre e comunque lo srotolare, a volte quasi impietosamente, il tappeto del cambiamento perenne.
Claudio Vercelli
(16 giugno 2019)