Gay Pride
Un’interpretazione post-moderna del Qohèlet non è ormai neanche più una novità: l’opera che contiene in sé contraddizioni e che alla fine non si sforza neanche di risolverle. C’è chi dice invece: le supera senza risolverle. Se per essenza del post-moderno intendiamo la presa di coscienza dell’impossibilità di dare risposta ad ogni interrogativo, di spiegare tutto, ci siamo. Esistono però due livelli: 1) l’ammissione che contraddizioni e contrasti esistono e che non sempre sono risolvibili (o almeno, che non sempre noi siamo in grado di risolvere); 2) l’assurgere dell’impossibilità di risolvere a modus vivendi. Il primo livello mi sembra una scelta matura, anzi un’ammissione matura, che non porta tuttavia a demordere dal cercare risposte; il secondo un atteggiamento per fuggire in modo elegante le responsabilità.
Nel mondo ebraico ortodosso (certo si deve precisare “in taluni ambienti del mondo ebraico ortodosso”, che tutto è tranne che un blocco monolitico) il problema dell’omosessualità viene vissuto come un problema lacerante: il contrasto fra il divieto netto ed esplicito della Torà e la conoscenza personale di persone genuinamente omosessuali è forte e può essere evitato solo facendo finta di non vedere il problema oppure negando che lo sia, seguendo due strade opposte eppure simili nel loro approccio sprezzante: o la Torà è datata e irrilevante oppure l’omosessualità è un falso a cui non va dato peso. Vuoi il “vecchio” vuoi il “nuovo” non meritano neanche di essere considerati. Se possibile, anche con arroganza e superbia (non è un caso che la traduzione ebraica di gay pride sia “marcia della superbia”, anche se in ogni ambito del parlato nella società israeliana si è perso il limite fra orgoglio e superbia!).
I rabbini che si misurano da tempo con il problema, non necessariamente ritengono che possa trovarsi una soluzione, meno che mai la soluzione. Ma non ritengono di potersi esimere dalla ricerca. Così rav Lubitz, che ormai da almeno vent’anni si occupa del tema e ha anche un sito dedicato all’argomento, così rav Benny Lau in tempi più recenti, ed altri ancora.
Il Talmud riporta che i Saggi vollero mettere in Ghenizà (in pratica censurare o far uscire dalla circolazione) il libro del Qohèlet, proprio per le contraddizioni che contiene, e che invece lo salvarono perché “iniziava e finiva con parole di Torà”; un destino simile tocco al Mishlè e per altri versi al libro di Yechezqèl, a proposito del quale viene riferito che Chananyà ben Chizqiyà si ritirò in soffitta, dove lavorò ininterrottamente per giorni e giorni e risolse tutte le contraddizioni fra Torà e Yechezqèl (cfr. TB Shabbat 30b e 13b). Le sue soluzioni non ci sono pervenute, l’aneddoto della sua impresa sì!
Rav Michael Ascoli
(18 giugno 2019)