Ebraismi, chi ha paura del confronto?
Come molti altri, critici inclusi, ho trovato di grande interesse il recente intervento su queste colonne di rav Pierpaolo Pinhas Punturello, che a propria volta prendeva spunto dall’intervista altrettanto interessante di Anna Segre a Guido Vitale pubblicata sull’ultimo numero di Hakehillah. Vorrei provare a commentare un singolo punto tra i molti e rilevanti toccati da rav Punturello, il rapporto dell’ebraismo italiano di denominazione ortodossa con altri ebraismi e, in particolare, con quelli riformati. Detto per inciso, credo sia di grande valore la scelta di Hakehillah di affrontare in numerose circostanze questo argomento negli ultimi anni, sia dando la voce ai protagonisti, sia accogliendo opinioni di vario orientamento (per esempio quella di Joyce Bigio, copresidente della Federazione italiana per l’ebraismo progressivo e del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni.
Rav Punturello definisce “folle la gestione dei rapporti con realtà ebraiche non ortodosse” e chiede il confronto con tutte le correnti ebraiche, ritenendo indispensabile che “l’UCEI abbia il coraggio di aprire spazi di incontro anche ai reform”. A questo proposito ricordo di aver proposto, nel corso di una riunione non molti anni fa, una serata di dibattito su temi selezionati con rabbini di comunità italiane ortodosse e di altre denominazioni ebraiche. Uno dei rabbini presenti, di cui ho peraltro stima, era allora intervenuto asserendo la propria ferma contrarietà alla proposta, che era perciò caduta. Niente di tragico, ma una spia di atteggiamenti diffusi.
Sono convinto che, di solito, il rifiuto del confronto esprima una posizione di debolezza, cioè di scarsa fiducia nella bontà dei propri argomenti e che, al contrario, il coraggio delle idee che porta ad accettare il confronto sia sintomo di fiducia nelle proprie convinzioni e indichi una posizione di forza. In altre parole, la forte sensazione è che chi rifiuta di parlare con Altri (lontani, vicini: comunque Altri) sia dominato dal sentimento della paura. Quella stessa paura che può spingere alcuni o molti rabbini, spesso in accordo con le dirigenze comunitarie, a serrare in fretta il portone della stalla, dimenticando però di dare prima un’occhiata all’interno per sincerarsi che i buoi non siano già scappati. Quella stessa paura che talvolta spiega – ma naturalmente non giustifica – certe reazioni scomposte diffuse negli spazi social del web da parte sempre degli stessi pochi corifei dell’intransigenza. Ed è ancora quella paura – qui credo che il ruolo di tanti rabbini, anche se non tutti e non tutti ugualmente, sia particolarmente accentuato – che porta ad avallare o addirittura indurre la straordinaria ignoranza della stragrande maggioranza degli ebrei italiani a proposito delle realtà ebraiche alternative alle poche – spesso pochissime – cui siamo abituati. Una vera e propria politica dell’ignoranza, conseguenza di un atteggiamento difensivo che oggi mostra in tutta evidenza i propri limiti.
Concludo accennando a un ultimo punto. La premessa d’obbligo è che non voglio ridurre le peculiarità, la varietà di approcci e anche le trasformazioni spesso decisive che nel corso di circa due secoli hanno toccato gli ebraismi riformati. Ciò detto, ho l’impressione che molto spesso, almeno in Italia fino a oggi, l’avvicinamento di un numero crescente di ebrei (e di non ebrei) a ebraismi diversi da quello delle istituzioni sia residuale, sia cioè una conseguenza della percezione di rifiuto e respingimento da parte delle comunità che si definiscono ortodosse. (Tra l’altro, si tratta di una percezione che può essere giustificata o non giustificata a seconda dei casi, ma sicuramente è un fenomeno diffuso e dunque, semplicemente come tale, è un problema che è irresponsabile nascondere sotto il tappeto). Sarebbe vero al limite della banalità suggerire che di tutto questo il rabbinato italiano non sia l’unico responsabile, ma trovandosi i rabbini in una posizione unica è francamente poco credibile sminuirne o ricusarne le responsabilità: non sono gli unici responsabili, ma di responsabilità ne hanno molte. Suonano ancora e sempre più attuali le parole che scriveva cinque anni fa Dario Calimani: “Si può solo auspicare che il rabbinato ortodosso si fermi a riflettere con coscienza, affronti il problema reale in tutta la sua gravità e tolga la pietra al collo all’ebraismo italiano”.
Giorgio Berruto