Machshevet Israel Lo Shulkhan ‘arukh di Primo Levi
Per celebrare quest’anno il secolo dalla nascita di Primo Levi, ormai divenuto icona internazionale dell’ebraismo italiano, rileggiamo Norberto Bobbio, il maggior filosofo della politica che l’Italia abbia avuto nel Novecento. Entrambi torinesi e laici, nonché antifascisti – quando questo termine significava qualcosa, qualcosa di nobile, sul piano culturale – Levi e Bobbio hanno condiviso un raro senso del rigore morale coniugato con la sottile ironia con cui gli intelligenti ponderano la realtà. Nel ricordare l’amico scomparso in un articolo intitolato emblematicamente “Primo Levi perché” (senza nessun retorico o paternalistico punto di domanda), apparso sulla Nuova Antologia nel 1988, il filosofo prende a chiave ermeneutica della personalità primoleviana il diagramma della di lui antologia Le ricerca delle radici, dove campeggiano due vie di ‘salvazione’ per l’essere umano: la salvazione del capire e la salvazione del riso. In mezzo, come meridiani supplettivi e fonte di continua riflessione, la dignitas dell’uomo e l’ingiustizia delle sofferenze dei giusti.
Circa il capire come via di salvazione Bobbio racconta: “Quando mi mandò il libro [I sommersi e i salvati], gli scrissi che nonostante tutto quello che aveva detto, Auschwitz continuava ad essere per me un mistero, un evento incomprensibile, perché non riuscivo ad inserirlo in nessuna delle caselle mentali che mi ero fabbricate in anni di letture e di studi. Egli mi rispose garbatamente che avevo torto, che anche dell’ottusa atrocità del campo si poteva, si doveva dare un spiegazione”. E aggiunge: “Non aveva mai perduto il gusto di ragionare, di addurre argomenti pro e contro”. Pur non essendo un filosofo in senso accademico, Primo Levi aveva una mens filosofica, aveva cioè il gusto – che sentiva come un dovere dell’uomo in quanto tale – di chiedersi e cercare il perché delle cose.
Circa il riso, ossia la salvazione attraverso il saper sorridere, non dovremmo esserne sorpresi: Primo Levi amava Boccaccio e Rabelais; gli piaceva l’umorismo degli scrittori yiddish; leggeva con diletto il Porta e il Belli; La tregua è venata da un senso del picaresco che fa da contrappunto al giustificatissimo ‘pessimismo della ragione’ di gramsciana memoria; e trovò (“vi sono caduto per caso”, dice lui con l’ennesima nota ironica) nello Shulkhan ‘arukh di Joseph Caro, XVI secolo, un bell’esempio di bizzarrie che fanno pensare. Bizzarrie, l’espressione è d’autore, ma non è affatto irriverente, anzi. Infatti spiega Levi: “[Esse] mi hanno portato a un modo di concepire la vita e il mondo che è lontano dal nostro, ma che deve essere capito se vogliamo capire noi stessi, e che sarebbe stupido liquidare in scherno”. E dopo aver spigolato in casi halakhici rari o addirittura ipotetici – come il cucinare carne nel latte di mandorla o l’acchiappare e gettare lontana una pulce di Shabbat – addita il fascino di questo codice rituale nella sua intrinseca subtilitas, che è “gioco disinteressato dell’ingegno”; quintessenza dell’umanità, avrebbe detto Hans Jonas.
Ancora Levi: “Dietro a queste pagine curiose percepisco il gusto antico per la discussione ardita, una flessibilità intellettuale che non teme le contraddizioni, anzi le accetta come un ingrediente immancabile della vita: e la vita è regola, è ordine che prevale sul caos, ma la regola ha pieghe, sacche inesplorate di eccezione, licenza, indulgenza e disordine” (da: “Il rito e il riso”, in L’altrui mestiere). A ben vedere, è un modo laico di definire l’halakhà. Levi suggerisce a noi di leggere oggi queste pagine con l’intelligenza e il riso con cui, forse, vennero scritti secoli fa dal loro autore: il fascino dei casi stravaganti – frequenti anche nelle pagine del Talmud – è sempre il fascino della complessità dell’esistenza. Capire e saper ridere sono due facce della medesima medaglia, del medesimo sguardo curioso e intelligente sul mondo.
“Era un uomo tranquillo ma non rassegnato – conclude Norberto Bobbio – e sapeva che quello che era accaduto una volta poteva accadere di nuovo. Riteneva che non fosse mai tardi per combattere una buona causa. Tornò spesso sull’idea che si dovesse imporre agli scienziati un nuovo giuramento di Ippocrate, che li impegnasse a non intraprendere ricerche nocive per il genere umano. Non era rassegnato perché non aveva perduto ogni speranza. Era un uomo tranquillo: questa era la sua natura. Ma i tempi erano stati tali da rivelargli il lato oscuro della storia e dell’animo umano. E la sua natura di uomo dalla ragione indagatrice e rischiaratrice ne era stata turbata per sempre”. In quel turbamento siamo ancora immersi, tutti noi, oggi e “ci brucia in petto il cuore” ogni volta che rileggiamo – anche grazie a Primo Levi – quel che è stato.
Massimo Giuliani, docente Università di Trento