Fare qualcosa
L’assalto alla carovana dell’ebraismo italiano è iniziato e prosegue imperterrito. Finalmente i rabbanim hanno cominciato a ‘dialogare’ fra di loro, purtroppo nel modo sbagliato, con accuse e contro-accuse, esibendo personalismi accentuati e, fortunatamente, senza alcun frutto per le sorti del nostro ebraismo già disastrato.
Qualcuno ha gettato il sasso nello stagno, ma forse non era il sasso giusto, o lo stagno non era il più adatto. Fatto sta che ora, anche in rete, le prese di posizione pro e contro si sprecano, animate e focose. Abbiamo un altro argomento forte su cui accapigliarci. E se non prendi parte alla diatriba con frasi incendiarie ti si accusa di genericità. Come se la nostra salvezza stesse nel prendere posizione, da una parte o dall’altra, anziché darsi da fare per spingere le parti – tutte le nostre parti – a impegnarsi e a studiare possibili soluzioni.
Sorprende che nel parapiglia suscitato le istituzioni, cui ci si va rivolgendo inutilmente da qualche tempo a questa parte, non si preoccupino minimamente delle lacerazioni che si stanno verificando fra di noi. Lacerazioni che, prendendo lo spunto da un solo argomento preminente, colgono l’occasione di un’elezione comunitaria o di un singolo matrimonio per accrescere le spaccature e sottolineare le distanze. Lacerazioni in cui si sfogano frustrazioni e si esauriscono le poche energie rimaste a un ebraismo ormai in triste dissolvimento.
Le istituzioni, laiche e religiose, stanno alla finestra a guardare, salvo prendere carta e penna per difendere una posizione e far salire il livello della polemica. Come se fosse più importante difendere il proprio orticello piuttosto che riportare a rigoglio il giardino.
Manca la parola del saggio. E manca la visione dell’insieme.
Qualcuno dirà che almeno se ne parla, qualcuno dirà che non si può mettere il silenziatore al dibattito. Ma il dibattito è vivo da decenni, oramai, e nulla nello stagno si è mai mosso, a dimostrazione che le contestazioni, sobrie o sguaiate, non sono utili. Sarebbe utile, invece, fare qualche cosa.
Se nulla viene fatto non si può che dedurne che a tutti stia bene così, che lo status quo della battaglia permanente piace alle nostre istituzioni, convinte che l’inerzia giovi alla nostra salute sociale e identitaria. Ma stare alla finestra ad assistere passivamente agli eventi lascia solo spazio alle fratture in corso e a qualche scissione già in atto.
Continuiamo a rimanere in attesa. Fiduciosa.
Dario Calimani, Università di Venezia