Contraddizioni della vita ebraica nella diaspora
Nella Parashà di Shelach, la Torah narra il tragico esito della missione degli esploratori inviati da Mosè in terra di Canaan, quella delegazione dei dodici capitribù, che avrebbe dovuto riferire le qualità del paese e predisporre il popolo all’ingresso nella terra promessa dal Signore rientra tracciando – con la sola eccezione di Giosuè e Calev – uno sconfortante resoconto sul carattere agguerrito degli abitanti; la descrizione getta nel panico il popolo che si dichiara pronto a tornare in Egitto, finché interviene la sentenza divina che condanna l’intera generazione a peregrinare nel deserto, solo i figli sarebbero entrati nella terra d’Israele.
Questo episodio, così come i brani del libro del Levitico ( Vaikrà cap.26) e del Deuteronomio ( Devarim cap. 28), che profetizzano sulle sventure del popolo ebraico, ci ricordano che la condizione di lontananza dalla terra d’Israele non è considerata nella Torah uno stato ottimale, in quanto conseguenza di gravi eventi negativi, e non è una condizione definitiva, in quanto prelude all’annunciata riunificazione dei dispersi nella terra d’Israele. Su queste premesse si innestano poi altri messaggi, come quelli del profeta Geremia, che invita gli esuli in Babilonia ad affrontare concretamente la nuova realtà “costruite case, piantate orti, prendete moglie generate figli… cercate il benessere della città dove vi ho esiliato, pregate il Signore per essa, poiché dal suo bene dipende il vostro” (Geremia 29, 4-7); d’altra parte il profeta Ezechiele prevede e previene sul nascere la disposizione all’assimilazione a civiltà estranee, che già emergeva da quel primo esilio e di cui sappiamo bene cosa significhi nel presente “E ciò che vi è saltato in mente, non si effettuerà! Ciò che voi dite: Vogliamo essere come le altre genti, come le varie famiglie delle varie terre, servendo idoli di legno e di pietra. Come è vero che Io vivo, dice il Signore, con mano possente, con braccio disteso e con sdegno manifesto, regnerò su di voi” ( Ezechiele 20, 32-33). Il pensiero ebraico ha anche cercato nel corso dei millenni di dare un senso all’esilio, che, da un lato, rimane impregnato della compassione divina per il popolo disperso, come intensamente descritto nei midrashim, e che, d’altra parte, può anche nutrirsi della consapevolezza di un speciale compito di testimonianza spirituale tra i popoli, affidato ad Israele, come il cuore delle nazioni, tema ampiamente sviluppato nel pensiero di Yehudah Ha-Levì, che si abbina a una incessante struggente nostalgia per Erez Israel.
Sono solo alcune tracce sulla necessità di inquadrare, anche nel presente, il senso dell’essere ebrei nella diaspora, partendo dalla problematicità e dai limiti che l’insegnamento della Torà, dei Profeti e dei Maestri ci hanno dato in proposito. Ci sono su questo tema contraddizioni irrisolvibili, con le quali dobbiamo convivere, a partire dal fatto che essere ebrei nella diaspora, sulla scia di quanto ci perviene dalle nostre fonti, significa impegnarsi a dar vita e a continuare qualcosa che ci viene definito per natura come conseguenza di eventi negativi e destinato ad estinguersi in un tempo futuro. La vita ebraica nella diaspora si perpetua attraverso il paradosso della sua stessa temporaneità.
Forse proprio partendo da questa problematicità si può ricercare un più stretto e intenso rapporto tra i rabbini e le comunità, cercare insieme il senso dell’essere oggi ebrei, in questo paese, nella diaspora, in dialogo con il mondo che ci circonda e con i nostri fratelli nello Stato d’Israele, una ricerca che parta, dall’interno, cioè delle nostre fonti, dalla Torah e dai nostri Maestri, del passato e del presente, non dall’esterno, non da categorie e aspettative personali, che ci portano fuori strada, che possono dare risposte apparentemente rassicuranti ma che non ci aiutano ad essere concretamente ebrei nella vita e ad essere, come tali, consapevoli dei compiti e delle responsabilità nel tempo e nei luoghi in cui ci troviamo.
Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova