Le scelte del rabbinato italiano
Desidero replicare ad alcune affermazioni di Alberto Cavaglion che ha parlato della bonaccia (metafora dell’immobilismo) in cui si troverebbe da ben più di un secolo il rabbinato italiano. Cavaglion denuncia i rabbini italiani per “La loro scarsa passione per la storia; la scarsa conoscenza che dimostrano per le biografie di coloro che hanno occupato gli stessi incarichi che oggi loro ricoprono”.
Mi spiace deluderlo. Spesso i rabbini italiani sono più storici che rabbini (ne abbiamo avuto esempi illustri nelle cattedre israeliane). Molti (compreso lo scrivente cui dispiace di citarsi) hanno scritto abbondantemente di storia del rabbinato italiano e di recente sono stati pubblicati interi volumi della Rassegna Mensile di Israel sulle biografie più importanti del ‘900, facendo seguito a convegni promossi anche dal Collegio Rabbinico.
“Se di più guardassero al passato – prosegue Cavaglion – si accorgerebbero che tutto rimane sempre bloccato in un sempiterno ritorno dell’uguale. […] Decidere di non decidere è stato ed è purtroppo prassi corrente. Nel 1867 il dibattito sulla Riforma ad esempio era più vivo che mai. A Firenze si svolse un convegno […] Già in quella circostanza prevalse la logica del rinvio”.
Ora, se per decisionismo si intende abbracciare la Riforma, questo decisionismo non c’è stato. Piuttosto una decisione ci fu, per quanto la si possa considerare immobilismo, e fu quella di non far passare la Riforma. E non era una decisione semplice, viste le posizioni e i compromessi accettati da tanti rabbini italiani che di fatto furono poi emarginati dal trend più rigoroso delle scuole rabbiniche di Livorno e Firenze. E non fu neppure immobilismo, anzi il contrario, l’apertura alla ricerca scientifica di entrambe le scuole e il loro sostegno al Sionismo.
Aggiunge Cavaglion: “Non si spiega altrimenti il ritardo con cui i Rabbini compresero la tempesta inaspettata del fascismo.”
È vero che molti rabbini compresero tardi la tempesta del fascismo (ce n’erano anche di tesserati) ma non era un problema rabbinico, era l’intero ebraismo a non capire. I più incapaci a comprendere erano proprio i discepoli dei teorici dell’ “italiano di fede mosaica”, che era un modello identitario sostenuto dai rabbini ottocenteschi più inclini alla riforma. E furono i rabbini in prima fila ad esporsi nel Rosh Hashanà del 1938 con un appello che cercava di richiamare punti fissi nelle laceranti divergenze tra i “bandieristi” e gli altri.
Cavaglion conclude con una sua ipotesi storiografica audace: “Nel bene come nel male l’ebraismo italiano ha subito il condizionamento della cultura italiana dominante, segnata dalla presenza del cattolicesimo, delle sue indulgenze primarie e secondarie. L’Italia, anche per gli ebrei, non è stata, non ha potuto essere e non sarà mai il paese della riforma protestante ovvero il paese delle scelte nette, decise, chiare”.
Condivido molto l’ipotesi dell’influsso cattolico (nella versione italiana) nella mentalità degli ebrei italiani. Ma questo riguarda tutti gli ebrei e non solo i rabbini. Ma se si tratta di scelte mancate, qui non sono più d’accordo. Le scelte, come ho detto prima, ci sono state, purtroppo non nella direzione auspicata da Cavaglion.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma