L’acqua e il fuoco
La vicenda dei flussi migratori nel Mediterraneo, una delle grandi aree di trasmigrazione mondiale, così come il problema della loro gestione politica, hanno assunto oramai da tempo, in Italia, i caratteri del confronto ideologico sulla scorta di un continuo gioco di specchi e rifrazioni di immagini. In altre parole, sussiste una spasmodica concentrazione sulle rappresentazioni mediatiche che di quelle vicende si sta dando, mentre la sostanza della questione è pressoché elusa, sia a Roma che nelle altri capitali europee, a partire da Bruxelles. Sul merito dei fatti, ossia su cosa stia per davvero avvenendo, trattandosi di una redistribuzione a livello internazionale, se non mondiale, della popolazione in base a criteri soprattutto di ordine economico e sociodemografico (rilevanti gruppi umani si spostano laddove maggiore è la ricchezza, quindi le occasioni di trovare una collocazione lavorativa retribuita e risorse aggiuntive, presenti sul territorio, nel mentre le società ospiti scontano il progressivo invecchiamento nella composizione delle loro coorti generazionali), si potrebbero scrivere giganteschi trattati. C’è chi l’ha già fatto e chi presto ancora lo farà. La demografia è una disciplina molto complessa che, per fare valutazioni puntuali, deve tenere in conto un grande numero di variabili, non sempre facilmente identificabili, verificabili, ponderabili e computabili. Una parte della sua valutazione si rivolge alla dimensione probabilistica, dovendo tenere in considerazione fattori a venire la cui incidenza, tuttavia, già si misura al presente, quanto meno in termini di aspettative. Il punto della nostra riflessione, però, non è questo. Semmai rimanda al primo passaggio, quello relativo non ai numeri e ai fatti bensì al loro uso nella polemica quotidiana. Che ha assunto, se mai non bastassero tutti gli altri fronti già aperti da tempo, la natura di terreno di scontro politico senza via d’uscita. Poiché la polemica viene alimentata non per confrontare ipotesi di soluzioni diverse, per poi scegliere quella maggiormente praticabile; semmai serve a rinviare ad un futuro indefinito qualsiasi plausibile iniziativa di carattere risolutivo. In Italia come anche in Europa. La spasmodica attenzione intorno ad una nave di salvataggio; al permesso o al divieto di attracco e sbarco in un porto italiano di quanti sono stati raccolti da essa; più in generale la questione dei «porti chiusi» (o aperti), non ha infatti ad oggetto il coordinamento delle politiche migratorie in sé, sostanzialmente latitante nell’Unione europea, bensì l’esibizione muscolare nella prova di forza in cui alcuni politici si stanno esercitando nell’agone mediatico. Non solo sulle spalle dei migranti, variamente (e impropriamente) associati ai perseguitati razziali del passato o a cos’altro, ma rispetto ai medesimi cittadini europei. In parole più semplici, ad oggetto della contrapposizione in corso non c’è il “da farsi” rispetto ai processi migratori in quanto fatto reale – un tema sul quale le idee mancano – ma il loro utilizzo nell’arena politica per intimidire e spaventare, così come per raccogliere consenso e applausi. L’unica cosa non prefabbricata è il disagio di chi si trova sulla nave, a prescindere dalle ragioni, facilmente intuibili, che lo hanno portato a soggiornare sul ponte del battello. Intorno a questi scarni fatti si è scatenato da tempo, in questo caso come in quelli precedenti, un circo perlopiù mediatico fatto di affermazioni e repliche, prese di posizione e smentite, di richieste e di rifiuti, così come di invettive, sproloqui e dichiarazioni tanto roboanti quanto insensate. Di tutto quello che è stato detto e, prevedibilmente, ancora verrà aggiunto, vale quindi forse la pena di rinviare a qualche considerazione a margine. La prima di esse è che se uno Stato sovrano ha non solo il diritto ma anche il dovere di difendere i suoi confini, essendo questo un attributo fondamentale della sua ragione d’essere storica, il modo in cui si adopera in tale senso fa la differenza. Il presidio delle frontiere, di cui il monitoraggio di chi entra (ed esce) è parte integrante, non può prescindere dal rispetto del diritto umanitario e dai vincoli stabiliti dal sistema di accordi internazionali sottoscritti. Non per astratto formalismo ma per sostanziale aderenza e unitarietà, morale e giuridica, delle norme dello Stato, tra le quali, per l’appunto, ci sono anche quelle che sono parte integrante del diritto internazionale liberamente condiviso dallo Stato medesimo. Altrimenti, ci si mette fuori dalla legalità. Poiché nel qual caso, ed è questo il secondo passaggio, se si rivendica una condotta in deroga dagli accordi sottoscritti, si è nel campo della illegittimità. Anche questa non è una questione di lana caprina, di puro formalismo, ma rimanda al presupposto, tutto politico, per il quale se non si rispettano le parti altrui non si sarà rispettati come parte in gioco. Inutile rivendicare ciò che compete, infatti, se non si è fatto altrettanto quando si trattava di parti terze. Poiché nella questione migranti entrano in campo non solo gli espatrianti ma l’intero sistema di relazioni europee. Un sovranismo a muso duro, giocato sul solo rifiuto degli accessi, isola l’Italia rispetto ai partner europei ancora di più di quanto già non lo sia a prescindere da una tale questione. Invocare la condizione di “emergenza”, in ragione della quale ci si troverebbe in una tale situazione di eccezionalità da giustificare la deroga dal sistema dei diritti internazionali e umanitari, è esattamente speculare al ragionamento di chi sovrappone e parifica i migranti di oggi ai rifugiati di ieri. I due inganni si alimentano vicendevolmente: quello dell’insopportabile semplificazione storica con il gioco delle cancellerie che dichiarano ad alta voce di non potere affrontare certi problemi se non facendo a meno delle norme di diritto consuetudinario e codificato. Altra questione – poi – è quella che lega legittimità dell’azione politica con giustizia (nei suoi risultati): ciò che in una certa epoca è comunemente avvertito da una componente della popolazione come lecito, ed è tradotto dai politici in gesti ed atti (vale anche il rapporto inverso), non è per nulla detto che sia di per sé giusto. Un “comune sentire” (altrimenti detto “buonsenso”) risponde a motivazioni che possono benissimo essere non solo errate ma anche perverse e, quindi, moralmente censurabili. Evitando la tentazione della reductio ad Hitlerum, va tuttavia ricordato che una buona parte di antisemiti erano intimamente convinti (e lo sono a tutt’oggi) di essere dalla parte della ragione. Non per questo hanno una qualche legittimazione. L’errore di sottrarsi volutamente al contesto umano – al quale la risposta politica se si vuole che sia (e rimanga) legittima deve invece comunque raccordarsi – conduce inesorabilmente alla banalizzazione delle risposte semplificanti e al quietismo amorale, di cui le vie dell’inferno, come celebra un famoso aforisma, al pari delle buone intenzioni, sono sempre lastricate. Il fatto è che si pensa che l’inferno, in questo come in altri casi, sia problema altrui. Ciò facendo, nel mentre, non ci si rende conto che le fiamme ci stanno già lambendo. Tanto più in un mondo globalizzato, dove non si sfugge alla morsa della condivisione, men che meno illudendosi di potersi ritrarre dal principio di realtà.
Claudio Vercelli
(30 giugno 2019)