Carola, Antigone, Batia
Quanti di noi ebrei italiani di oggi sarebbero vivi (o, semplicemente, sarebbero nati) se molte, moltissime persone non avessero scelto consapevolmente di violare la legge? Credo ben pochi. Personalmente fatico a comprendere come le nostre discussioni possano prescindere da questo semplice ma incontrovertibile dato di fatto. Certo, qualcuno mi obietterà che ogni paragone storico con la Shoah è improprio; non sono d’accordo per due ragioni: prima di tutto perché, se si discute sulle questioni di principio e non sui fatti reali, basta anche un solo caso nella storia il cui il principio risultava chiaramente inapplicabile per dimostrare che non può essere applicato sempre e comunque; in secondo luogo perché, se consideriamo il punto di vista soggettivo delle persone che hanno aiutato i nostri genitori e nonni a salvarsi (e in particolare quello di coloro che hanno operato per farli immigrare illegalmente in Svizzera, violando quindi le leggi di uno stato democratico), è assai probabile che molti di loro non fossero affatto al corrente dell’esistenza delle camere a gas e del destino che attendeva gli ebrei. Dunque, se consideriamo le motivazioni personali che li hanno portati ad agire, mi pare che tutte le pur innegabili differenze tra i contesti storici divengano assai meno rilevanti di quanto appaiano a chi osserva il quadro d’insieme e non le situazioni specifiche.
Molti in questi giorni hanno paragonato Carola Rackete ad Antigone. Ma se vogliamo portare l’esempio di una donna che sceglie consapevolmente di violare la legge in nome della sua etica personale non abbiamo bisogno di andare a scavare nella mitologia greca perché l’Esodo (libro sacro non solo per gli ebrei ma anche per i cristiani) ci offre un esempio altrettanto buono, e a mio parere migliore: la figlia del faraone (che il midrash chiama Batia). Non sono mai riuscita a spiegarmi perché la povera principessa egizia abbia avuto per millenni meno successo mediatico della sua collega greca. Eppure il testo biblico non lascia dubbi sulla sua consapevolezza (“scorgendo la cassettina in mezzo ai giunchi mandò la sua ancella a prenderla. Apertala, vide il bambino che piangeva, ne ebbe compassione e pensò: Questo è certamente un bambino degli ebrei”). Batia disobbedisce a un re che per di più è anche suo padre, Antigone a un tiranno che è solo suo zio; Antigone seppellisce suo fratello, Batia salva la vita a un bambino che le è del tutto estraneo. Infine – e mi pare la cosa più importante – seppellire i defunti è certamente un dovere anche per l’ebraismo, ma, a quanto mi risulta, non di quelli da compiere a rischio della propria vita. Salvare una vita umana, come fa Batia, viene prima di tutto.
Carola Rackete non è né Batia né Antigone, ma francamente vedo molte più somiglianze con la prima che con la seconda, soprattutto perché in entrambi i casi il principio etico che invocano è quello per cui la salvezza di una o più vite umane viene prima di tutto. Nel caso della capitana della Sea Watch si può discutere su quanto fosse reale il pericolo di vita delle persone a bordo della sua nave, magari si potrebbe mettere in dubbio anche la sua buona fede nel ritenere che ci fossero vite umane in pericolo, ma guardando alla vicenda da un punto di vista ebraico non riesco a capire come si possa invocare il dovere di obbedire alla legge, o qualunque altro principio, contro una persona che dichiara di aver agito in un certo modo per salvare vite umane.
Del resto sappiamo bene quanto sia ampio per l’ebraismo il concetto di pericolo di vita che permette di violare un precetto: tanto per fare un esempio, quante delle persone malate a cui medici e rabbini permettono (anzi, spesso impongono) di mangiare o bere durante Kippur correrebbero davvero un serio pericolo se osservassero scrupolosamente il digiuno? Sono pronta a scommettere che in percentuale sono molte meno dei migranti a bordo della Sea Watch che minacciavano seriamente di gettarsi in mare. In generale, il principio del pericolo di vita non si applica solo nei casi certi, ma anche in quelli dubbi. E onestamente mi pare veramente difficile sostenere che nel caso della Sea Watch non ci fosse proprio neppure l’ombra di un dubbio.
Anna Segre