I rabbini e il rischio della apologia
Il prof. Alberto Cavaglion ha puntualmente replicato alle mie osservazioni alla sua nota. Sono precisazioni importanti che meritano di nuovo qualche commento, ringraziandolo per l’occasione di questo confronto.
Avevo protestato perché Cavaglion accusava i rabbini italiani di trascurare la loro storia. Ora l’accusa viene riformulata con maggiore precisione; la storia non viene ignorata dai rabbini di oggi, ma i lavori da loro pubblicati che si occupano dei rabbini, spiega Cavaglion “mi paiono segnati da una impalpabile vena apologetica. Dimostrano … un debole “senso della storia”, danno risposte evasive sul ruolo che i Rabbini, all’alba del mondo nuovo, progettavano per se stessi: non spiegano a quale modello s’ispiravano, quale idea di Stato avevano in mente, come pensavano che l’ebraismo dovesse rapportarsi con una idea di nazione moderna”.
Accetto con piacere la lezione di metodo che viene da uno storico autorevole. Ma se si vuole evitare il rischio della apologia, in altri termini evitare di prendere per oro colato e fonte autorevole tutto quello che hanno pensato questi personaggi del passato, alla lista delle domande che Cavaglion propone ne va aggiunta una iniziale: che tipo di rabbini erano, dove e cosa avevano studiato, che cosa avevano scritto e pubblicato di argomento rabbinico con un minimo impatto fuori dall’Italia. La risposta non apologetica a questa domanda potrebbe essere in molti casi inquietante: si capirebbe che molte delle persone che vengono additate ad esempio di apertura alla modernità rappresentano certamente una notevole testimonianza storica, ma forse non avevano l’autorevolezza rabbinica necessaria per giustificare le loro tesi davanti ad un pubblico internazionale preparato. Esiste certamente un rapporto reciproco tra mentalità e halakhà; ma se nella storia delle mentalità ogni opinione è importante, nella halakhà contano solo le opinioni autorevoli.
Cavaglion mi chiede quale sia la mia fonte quando affermo che i rabbini italiani decisero di non far passare la riforma. Definisce ironicamente questa mia affermazione “una sensazionale notizia”. “A me risulta – continua Cavaglion – che si debba arrivare al 1931 e a Mussolini per disporre di una legge che da un lato regola in modo unitario la vita dell’ebraismo italiano, dall’altro tarpa le ali a ogni forma di pluralità delle vie. Sconfiggere la riforma con l’aiutino del Duce non è titolo d’onore, ma non è nemmeno una vittoria di cui ci si possa vantare scoprire adesso … che la decisione era già stata presa prima, senza dirlo troppo in giro, a bassa voce, per non dare scandalo.”
Intanto mi pare semplicistico appiattire al fascismo la legge sulle comunità del 1931, con tutta la storia normativa che l’ha preceduta (legge che tra l’altro consentiva libere elezioni in un regime che le aveva abolite altrove); e poi presentare così la questione è fuorviante. La riforma in Italia, dai primi decenni dell’800 si poteva presentare in due modi: il primo quello di una nuova forma ufficiale di culto, come era avvenuto in paesi come la Germania, e che non passò mai, senza bisogno di leggi e di delibere; l’altro modo fu quello che qualcuno ha definito la “riforma strisciante”: innovazioni di culto come l’abolizione del secondo giorno di Mo’èd, riduzione dei tempi del lutto, permessi e facilitazioni nell’osservanza in casi di necessità, organo nei Tempi, cremazioni, matrimoni nell’ ‘omer, e più in generale accettazione passiva di pratiche trasgressive. Qualche volta ci furono anche votazioni comunitarie, che non ottennero la maggioranza. Altre volte qualche rabbino provò a permettere ma i colleghi della sua e di altre comunità lo criticarono. Non mi risulta che sia stato stampato un libro di preghiere riformato (piuttosto andrebbe fatto uno studio sull’uso del diffusissimo testo in italiano di Preghiere di un cuore israelita). Quindi nessuna notizia sensazionale, ma un lungo (un secolo!) processo di controllo collettivo che nella sostanza ha fatto passare nel tempo solo piccole cose qua e là. Non c’era bisogno dell’aiutino del Duce.
“Nei settant’anni che vanno dal 1861 al 1931 – osserva Cavaglion – su qualunque trattato rabbinico trionfò la lezione di Manzoni. Sopire, troncare. Sopire, tacere. In una così ostinata volontà di omologarsi al conformismo nazionale io scorgo il veleno della vera assimilazione.”
Un bel paradosso. Far passare per assimilazione la difesa della tradizione. Ben altro era il conformismo assimilato contro il quale combattevano “vecchi rabbini e giovani sionisti” come diceva Piero Sraffa ripreso da Gramsci.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma