Dossier Pagine Ebraiche – È vera laicità quando valorizza le minoranze
Non sarà un caso che i trent’anni che ci separano dalla legge 101 dell’8 marzo 1989 che ha dettato le “Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle Comunità Ebraiche italiane” abbiano preceduto di poche settimane un fondamentale intervento della Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 203 dell’11 aprile 1989, ha sancito che il principio di laicità è un principio supremo che si pone a un livello superiore sia rispetto alle leggi primarie che rispetto alle leggi di rango costituzionale.
Ebbene i due anniversari che celebriamo quest’anno, i trent’anni dall’Intesa tra Stato e Comunità ebraiche e l’enunciazione del principio di laicità espresso dal massimo organo costituzionale, appaiono inscindibili proprio perché tanto la legge quanto la sentenza della Suprema Corte muovono dai principi fondamentali della libertà religiosa e dell’uguaglianza di tutte le confessioni di fronte alla legge. E da sempre i principi che hanno governato la “questione religiosa” per gli ebrei e le comunità ebraiche hanno contemperato la rivendicazione del poter esercitare liberamente il proprio credo, unitamente alla necessità della laicità dello Stato come base fondamentale per la convivenza civile.
La sentenza si esprime su una norma della legge dell’85 di revisione del Concordato Stato Chiesa, nasce dalla questione dell’ora di religione e, dichiarando il non obbligo alla frequenza di insegnamenti alternativi, riconosce l’autodeterminazione del diritto soggettivo delle persone di scegliere se frequentare o no l’ora l’alternativa, diritto che è garantito dall’art.2 della Costituzione. L’importanza di questa sentenza però, non è collegata solo a questa contingenza ma al principio che fa emergere. È stata infatti un’occasione fondamentale per la Corte costituzionale di affermare che la laicità in Italia è una situazione non di indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso, bensì di garanzia da parte dello stesso di salvaguardia della libertà religiosa per tutti, garanzia che si manifesta sia nel principio di non discriminazione che sia principio di autodeterminazione nella decisione di credere e non credere. In questo senso il principio di laicità si inserisce nel più ampio contesto del pluralismo religioso e culturale, segnando il modello di laicità in Italia. Il principio di laicità dello Stato è stato in sostanza elevato a rango supremo, non suscettibile di revisione costituzionale, laddove si afferma appunto che esso “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.
A distanza di trent’anni dall’introduzione della laicità nell’ordinamento costituzionale val la pena interrogarsi per capire se il principio di laicità da un lato e i criteri fissati dalla legge che ha recepito nel nostro ordinamento l’Intesa tra stato e Comunità ebraiche abbiano avuto piena attuazione e quali criticità incontrino, specie in un momento in cui politici invocano simboli sacri nei comizi e in molti edifici pubblici, luoghi laici per natura, è ancora ben saldo il crocifisso appeso.
Intanto la grande differenza che caratterizza il nostro Paese rispetto a trent’anni fa è data dal fatto fondamentale che la nostra è una società sempre più multiculturale e multireligiosa: è quasi il caso di dire che è il numero che fa la differenza anche negli affari di coscienza, come in realtà non dovrebbe essere. Questo perché la poca conoscenza di realtà religiose diverse dalla cattolica, quali quella valdese, protestante o ebraica, presenti in Italia da secoli o millenni, non hanno mai posto il problema della laicità e del laicismo in termini così forti, come invece il forte fenomeno immigratorio e la presenza musulmana hanno posto dall’inizio degli anni Duemila nel nostro Paese.
Non dobbiamo dimenticare che la Costituzione repubblicana, attraverso alcuni principi cardine ha sancito la non discriminazione su base religiosa (art.3), l’uguaglianza di tutte le confessioni di fronte alla legge (art.8), la libertà di professare il proprio credo, sia individualmente che collettivamente, di promuoverne la diffusione e di celebrarne il culto in pubblico o in privato a meno che i riti non siano contrari al buon costume (art.19), la proibizione di ogni forma di discriminazione o l’imposizione di speciali oneri fiscali nei confronti di associazioni o istituzioni religiose basate sull’appartenenza confessionale (art.20). Accanto a queste, altre norme interessano indirettamente la libertà religiosa: l’art.2 che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo (fra cui rientra la libertà religiosa e di credo) e gli artt. 17, 18 e 21 che garantiscono la libertà di espressione, di assemblea e di riunione e la libertà di organizzare associazioni religiose.
Ma quando si affronta il tema della laicità dello Stato non si può scinderlo dalla neutralità dell’apparato statale e delle istituzioni pubbliche che non devono occuparsi del fenomeno religioso con scelte di campo preferenziali, mentre l’Italia è di fatto ancora pervasa da questa dicotomia: presenza religiosa o non presenza, grazie alle influenze vaticane ed alla preponderanza della Chiesa cattolica.
Il principio di laicità dello Stato deve distinguere Stato e Chiesa, politica e religione, senza renderli “ antagonisti”, ma separando le rispettive aree di competenza: la sfera spirituale e religiosa resta distinta da quella temporale e civile, ma tra i due ambiti resta ineliminabile una osmosi di valori che attraversano sia la comunità civile, sia la comunità religiosa. Alla stessa laicità risulta poi fortemente connessa la libertà religiosa o, più precisamente, la libertà di coscienza individuale, che si esplica sia nel tutelare chi intende professare il proprio credo, sia nel tutelare anche la libertà degli atei e dei non credenti, soprattutto alla luce dei mutati attributi che contraddistinguono la società attuale, nella quale interagiscono nuove appartenenze all’interno di una realtà sempre più globalizzata, e dunque la riscoperta dei valori fondanti la laicità e la libertà religiosa deve costituire la base per una politica legislativa calibrata sulle specificità confessionali, sulle esigenze religiose del singolo e sul ruolo centrale che, queste stesse, assumono nelle dinamiche di integrazione.
Oggi la laicità deve significare non soltanto una neutralità – che non tolleri, perché il concetto di tolleranza porta in sé delle ambiguità – ma capisca e valorizzi le minoranze, le diverse identità, le differenze. Questo vuol dire che non è detto che chi è credente non possa e non debba essere laico. o chi è laico non possa dirsi anche credente: si può essere credenti e osservanti nella propria fede, ma laici allo stesso tempo, sempre in quest’ottica del privato, da una parte, e della dimensione pubblica, dall’altra; il privato è rispettoso della propria specificità se intende rispettarla e non deve per questo prevalere su altre diversità ma deve essere nei loro rapporti su un piano di confronto dialettico.
Un esempio chiaro, per certi versi speculare alla questione dell’apposizione del crocifisso nei luoghi pubblici, è la vicenda di chi vuole entrare in classe o nel posto di lavoro indossando il velo o la kippà, nel senso che chi intende rispettare la propria identità culturale e religiosa, non vuole imporre niente a nessuno, mentre ben diverso è imporre su di un muro di una istituzione pubblica, perché tutti lo vedano, un crocifisso: nel primo caso il simbolo fa parte dell’idenitità e l’identità non può e non deve essere cancellata ma va rigorosamente rispettata insieme ai valori fondamentali di una persona, nel secondo caso suona come un’imposizione per tutti.
Questa sembra essere un po’ la sfida che pone l’attuale presenza multiculturale e multireligiosa, e le garanzie sono nel sistema normativo italiano che dovrebbe essere assolutamente rispettoso di tutte le identità.
Oggi non possiamo fare altro che stare in guardia sull’evolversi del fenomeno religioso in genere, tenendo anzitutto un preciso rispetto per gli altri, una difesa della propria specificità e dei propri valori identitari e una fiducia nella correttezza dello Stato e delle istituzioni pubbliche nell’analisi di questi fenomeni.
Vi è però nel nostro sistema una disciplina regolamentare, il regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289, recante “Norme per l’attuazione della legge 24 giugno 1929, n. 1159, sui culti ammessi nello Stato e per coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato” che, nonostante sia stata elaborata anteriormente all’era repubblicana, funge tutt’oggi da utile quadro normativo per assicurare la libertà religiosa in Italia. Il legislatore repubblicano, consapevole della necessità di superare tali norme che parlano ancora di “culti ammessi” e che fanno riferimento ad una concezione di “tolleranza” non più oggi attuale, ha esperito diversi tentativi, in passato, per dotare il nostro ordinamento di una legge organica sulla libertà religiosa, ma la discussione dei vari disegni di legge non ha sinora avuto alcun esito.
La Costituzione Italiana, con l’art 8, fornisce la misura di un corretto equilibrio: le confessioni diverse da quella cattolica si organizzano autonomamente secondo i loro strumenti e i loro rigorosi principi e si confrontano a tavolino con lo Stato, un confronto nel quale lo Stato non deve prevalere sulle confessioni, né queste le une sulle altre, perché altrimenti va a scemare il principio di laicità; si devono semplicemente far rispettare i principi connaturati a quella determinata confessione, alla sua natura e identità. Con tale disposizione si riconosce alle Confessioni acattoliche, la garanzia del rispetto del principio di autodeterminazione anche, e non solo, attraverso l’adozione di uno statuto: la Costituzione, infatti, non impone alle Confessioni acattoliche di darsi norme statutarie, ma riconosce il loro diritto ad esistere e agire secondo norme e modelli giuridici dalle stesse elaborate.
In ogni caso, è imprescindibile come tutte le tematiche trattate debbano avere, come termine assoluto della questione, l’uomo e il rispetto dei suoi diritti e della sua individualità. Lo Stato è chiamato a rispettare e tutelare, il diritto individuale di ciascuno, astenendosi dall’imporre alcun tipo di azione ai propri consociati e lasciando ad essi la libera determinazione che è loro propria, all’interno della loro intima sfera spirituale.
La legge 101 dell’89 sui rapporti tra Stato e Comunità ebraiche ha retto in questi trent’anni e regge bene anche oggi il confronto con le problematiche e le sfide che la società pongono quotidianamente nella vita comune: L’ebraismo italiano ha cercato di dimostrare allo Stato e alla società che l’essere ebrei è una condizione identitaria irrinunciabile e che i diritti e l’identità faticosamente conquistati si esplicano e si mantengono solo tutelando e preservando le proprie specificità e il proprio essere.
Certamente non poche criticità esistono, talune norme non sembrano sempre di facile attuabilità (ad esempio il riposo sabbatico o nelle festività ebraiche e la richiesta di assenza dal lavoro o da scuola per studenti e lavoratori); si possono e forse si debbono integrare eventuali vuoti, ma un punto fermo rimane: l’accordo raggiunto e siglato nel 1987 è uno strumento altamente democratico, necessario per superare le carenze e le criticità insite nei Regi Decreti del 1930/31: ogni tanto sembrano esser minati principi irrinunciabili quali la macellazione rituale o la milà, ma l’impianto normativo pattizio che ne è alla base regge ancora.
L’Intesa, insomma, è stata in questi tre decenni – unitamente allo Statuto dell’ebraismo italiano che ne è il corollario integrativo e che è oggetto di continue evoluzioni o modifiche – lo strumento migliore per garantire sul piano dei principi ma anche della realtà concreta i caratteri identitari dell’essere ebrei e la libertà di essere se stessi .
Ma non è sufficiente, perché un principio possa considerarsi pienamente rispettato all’interno di un ordinamento giuridico, la sua mera enunciazione; questa, al contrario, rischierebbe di apparire un semplice involucro, privo di reale contenuto, se non venisse promosso, da parte delle forze politiche e sociali, un programma normativo ed anche culturale, di rafforzamento e consolidamento dei principi che, in esso, dovrebbero essere insiti.
Oggi la perdurante assenza di una legge sulla libertà religiosa rappresenta la maggior criticità, perché abrogherebbe l’ormai vetusta legge sui culti ammessi, che ancora regola i rapporti tra lo Stato e le confessioni che non hanno concluso un’intesa con il Governo o, pur avendola conclusa, non l’hanno ancora vista approvare.
É solo attraverso un simile approccio, necessario per poter configurare la laicità come criterio in grado di accomunare credenti e non credenti, che si potranno realizzare le condizioni necessarie per la coesistenza di valori, magari contrastanti nei contenuti, ma coincidenti nel rifiuto di ogni fondamentalismo.
E qualora non si trovasse una soluzione comune, l’approccio laico risulta essenziale per approfondire le rispettive peculiari esigenze e per garantire che un successivo intervento legislativo possa tenere nella giusta, dovuta considerazione le richieste delle minoranze e dei singoli.
Giulio Disegni, vicepresidente UCEI