Il ghetto etiope
“Oggi autorizziamo l’uscita alle 14.45. Le rimanenti ore non saranno considerate assenza”. Così in ufficio. Il motivo? Le imminenti manifestazioni degli etiopi a seguito dell’uccisione di Solomon Tekah. La giornata si concluderà con 47 feriti e 60 arresti. Il giorno successivo era previsto, tristemente, il bis.
La violenza va sempre condannata, non c’è dubbio. Ma se la si vuole davvero sradicare occorre capire da dove viene. Come si è creata in Israele una situazione in cui un’intera comunità si sente (e spesso oggettivamente è) discriminata, marginalizzata, perfino sfruttata, proprio come conosciamo tristemente da realtà simili negli USA o in Europa? Hanno gli etiopi altro modo per farsi sentire? Se sei disperato sei indotto a fare tutto, anche ciò che non è né lecito né giustificabile.
La disperazione è la chiave di lettura: la sfiducia totale nelle istituzioni dello Stato è espressione di un disagio profondo e difficilmente sanabile. Richiama la situazione descritta nel cap. 5 del libro di Nechemià. Ma lì il grido di disperazione della gente oppressa (particolarmente forte il riferimento alla mancata fratellanza, “eppure come la carne dei nostri fratelli è la nostra”!) venne raccolto e portato avanti dal leader del popolo. Nechemià stesso testimonia: “mi decisi a confrontarmi duramente con i notabili e i magistrati e dissi loro: ‘Come! voi vi comportate come oppressori con i vostri fratelli?’ E convocai contro di loro una grande folla” (ivi, versetto 7). Rashì ed altri commentatori spiegano che la folla servisse a far vergognare (sic) i ricchi e potenti, che avrebbero dovuto invece provvedere alle necessità dei fratelli bisognosi. In assenza di un segno forte da parte dei governanti, in assenza di un genuino sentimento di fratellanza nei confronti della comunità etiope, è difficile ipotizzare che le cose possano migliorare!
Rav Michael Ascoli