Auschwitz visto attraverso la fede
La Shoah pone ineluttabilmente una questione teologica. Per quanto mi sia interrogato sul tema, ho finora preferito la risposta di chi ammette l’incapacità di dare una spiegazione. Qualsiasi interpretazione sia stata fornita riguardo “il perché della Shoah” mi è risultata problematica, parziale, insoddisfacente quando non addirittura interessata. E a nessuno piace che la Shoah venga strumentalizzata. Ammesso che mai ci si arrivi, ci sarà bisogno del passare di alcune generazioni fino a che si potrà arrivare a dire qualcosa del tipo “il secondo Bet haMiqdàsh è stato distrutto a causa dell’odio gratuito”. Su questo sfondo, la domanda circa la fede dopo Auschwitz è insidiosa. Coloro che sono passati per i campi, hanno trovato ciascuno la propria reazione, non giudicabile e né criticabile: a chi, se non a un a un sopravvissuto ai campi, può riferirsi il detto del Talmud “una persona non viene giudicata per ciò che fa quando è preda del proprio dolore”? C’è chi la fede l’ha persa, chi l’ha trovata o rafforzata, chi la ha mantenuta. È allora giusto fare una mostra su Auschwitz dove al centro viene posta proprio la fede? Così avviene ora con “Through the Lens of Faith”, appena inaugurata a Auschwitz. Ogni storia di un sopravvissuto è fonte di ispirazione, ogni testimonianza è preziosa. Ma non si rischia paradossalmente di svilire la fede se questa viene vista come un mezzo che ha meglio consentito di sopravvivere ad Auschwitz? Nella sua definizione più alta, il credo è scevro da qualsiasi aspettativa di ritorno personale, nonostante faccia parte del credere che esista una ricompensa per il retto comportamento. “E cosa il Signore richiede a te se non…procedere riservatamente con il tuo Dio?”.
Rav Michael Ascoli
(16 luglio 2019)