L’anno fatale: 1919
Claudio Vercelli prosegue nella pubblicazione dei suoi agili volumi di divulgazione storica: dopo «Israele 70 anni. Nascita di una nazione», «1938. Francamente razzisti. Le leggi razziali in Italia», «Neofascismi», adesso è la volta di «L’anno fatale. 1919: Da Piazza San Sepolcro a Fiume» (Edizioni del Capricorno, Torino, 2019). Non c’è bisogno di sottolineare quanto bisogno ci sia di conoscenza storica: i volumi di Vercelli sono perciò di grande utilità, anche perché seguono un modello che si è rivelato valido. Alla base c’è un testo redatto con un linguaggio rigoroso ma al tempo stesso molto chiaro, accompagnato da un corredo di schede che consentono al lettore non specialista di comprendere anche i passaggi più complessi della narrazione. Particolare cura viene data agli aspetti lessicali, che sono in realtà essenziali per una piena comprensione del testo.
Il 1919 è per molti aspetti un anno chiave per la comprensione della storia italiana dell’ultimo secolo. Si può dire che gli eventi di quell’«anno fatale» sono alla base di quella che ormai si può considerare l’«anomalia italiana»: il caso di un Paese che fino alla I guerra mondiale si è sviluppato in sostanziale sintonia con gli altri Paesi dell’Europa occidentale, nell’ambito di un sistema politico liberale che vedeva il lento ma progressivo ampliamento della sfera dei diritti civili e sociali, ma che a partire da quell’evento sembra perdere il suo equilibrio e sviluppare fenomeni che altrove non si verificano, per lo meno non in quella fase storica.
Il primo e sconcertante fenomeno è l’affermarsi – anche a livello di massa – del mito della «vittoria mutilata»: il caso paradossale di un Paese che esce vittorioso – dopo immani sacrifici – dal conflitto, raggiunge i suoi obiettivi storici di carattere territoriale – con il pieno compimento dell’unità nazionale per mezzo dell’annessione di Trento, Trieste e dell’Istria – e di prestigio, vedendosi riconosciuto il ruolo di grande potenza, che tuttavia rovescia questo successo in una sconfitta, autoproclamata tale senza che dall’esterno niente spingesse in questa direzione.
Ma l’anomalia non è soltanto in questa assurda interpretazione degli esiti della guerra: la ritroviamo anche negli equilibri sociali e politici interni, dove si affermano forze estremiste che non si riscontrano, per lo meno non con la stessa intensità, negli altri Paesi europei, nemmeno in quelli sconfitti.
Vercelli è particolarmente attento allo svilupparsi del radicalismo di destra, con l’impresa dannunziana di Fiume e la nascita e il progressivo affermarsi dei Fasci di combattimento, una scelta comprensibile alla luce della successiva conquista del potere da parte del fascismo e dell’instaurazione in Italia del primo Stato tendenzialmente totalitario dell’età moderna. Ma anche a sinistra l’anomalia non è di poco rilievo, con un movimento socialista che ottiene una grande affermazione nelle prime elezioni del dopoguerra, quelle appunto del 1919, ha una presenza politica e sociale capillare nella società italiana, per lo meno nel centro-nord, e riesce a dividersi in tre tronconi autodistruggendosi prima ancora di essere distrutto dal dilagante movimento fascista. Un movimento socialista formato da una componente massimalista, rivoluzionaria a parole ma inconcludente nei fatti; da una riformista, nella quale figurano personalità serie e preparate ma che non trova il coraggio di uscire dal mito dell’unità di classe e di allearsi con le altre componenti riformiste della società italiana, cattoliche e liberali; una terza componente infine che si inebria del mito della rivoluzione bolscevica, adeguandosi alle regole e al linguaggio che vengono da Mosca, preparando così il terreno per un’ulteriore e pesante anomalia della storia italiana, che si manifesterà in tutta la sua forza dopo la II guerra mondiale.
Infine l’anomalia costituita dalla classe dirigente liberale, che è riuscita a guidare il Paese alla vittoria ma che appare incapace di continuare a svolgere il ruolo che aveva svolto dal Risorgimento fino alla guerra, non sostenendo nemmeno i suoi uomini migliori, tra i quali in particolare Francesco Saverio Nitti, che non soltanto era uno dei politici più preparati in campo economico, ma che nella sua breve esperienza di governo aveva dimostrato tempra e capacità di statista.
L’anomalia come caratteristica strutturale della società italiana rispetto al quadro di riferimento europeo sembra essersi cronicizzata. L’Italia è stata il Paese modello per la creazione di un tipo di Stato – quello fascista – che per almeno un decennio è stato anomalo rispetto al resto dell’Europa. Nel secondo dopoguerra – accanto all’anomalia di un Paese caratterizzato da una radicale diversità di sviluppo economico, sociale e civile tra Nord e Sud – si è aggiunta l’anomalia del sistema politico, caratterizzato dal semi-monopolio del potere da parte di un partito confessionale e dall’analogo monopolio dell’opposizione del più forte partito comunista dell’Occidente, inabilitato a candidarsi come alternativa di governo. Superata, dopo quasi mezzo secolo, questa fase, ne è subentrata un’altra, più breve, con una diversa ma non meno rilevante anomalia, costituita dalla presenza di un partito proprietà di un imprenditore, contrastato dall’alleanza tra i residui dei due partiti maggiori della fase precedente. Infine l’anomalia della fase attuale, costituita non dall’esistenza di un partito sovranista e di uno populista – presenze che si riscontrano anche in altri Paesi europei – ma dalla loro alleanza che li ha condotti, almeno per ora, ad avere un rilevante consenso nel Paese.
Valentino Baldacci
(18 luglio 2019)