Machshevet Israel
Sull’idea di taref
Mi piace pensare che un pensiero sia ebraico se riesce a scavare – lidrosh – in ogni angolo dell’esperienza ebraica e portare a parola il recondito, l’implicito e il potenziale di quel na‘asè ve-nishma‘, “faremo e ascolteremo”, che sta alla base dell’esistenza del popolo di Israele. E tra le esperienze della vita quotidiana ebraica, vissuta nello spirito del Sinai, c’è la distinzione tra kasher e taref, termini che designano in senso ampio “ciò che è permesso” e il suo contrario, nel campo dell’alimentazione ma non solo. Al di qua degli aspetti rigorosamente halakhici, che sono materia rabbinica, è filosoficamente utile scavare nella stessa distinzione e nell’uso dei termini, tutt’altro che facili da tradurre (e in effetti sono resi spesso in molteplici modi). Kasher – kòsher nella pronuncia ashkenazita – è tradotto con ‘adatto’, ‘conveniente’, ‘appropriato’, ‘ritualmente puro’; ma sembra che la radice indichi il ‘preparare’, quasi un’attitudine-a, una capacità-per, una virtù. Il suo opposto taref, specie in ambito alimentare, indicherebbe da una parte ciò che è mischiato, dunque senza distinzione, confuso o contaminato; dall’altra, ciò che è rotto e strappato, anzi sbranato. Qui il senso letterale aiuta: la carne di un animale che sia stato sbranato e fatto a pezzi da un altro animale è vietata al consumo alimentare umano: non è kasher, non è adatta per degli esseri umani. Perché?
Una possibile spiegazione potrebbe essere questa: prima del diluvio l’essere umano non solo era vegetariano ma godeva di una relazione simpatetica e solidale con il resto del regno animale; dopo il diluvio, Dio cedette allo yetzer ra‘ dell’essere umano e gli concedette il consumo alimentare di altri animali, ma non senza per così dire un compromesso: la carne da mangiare deve essere preparata/resa disponibile attraverso un rito religioso, il sacrificio, che riconosca da Chi viene la vita, tutta la vita umana e animale; nessun carne di animale può essere mangiata se presa da animale vivo (cioè se l’animale non è stato macellato ritualmente); tale carne dev’essere senza sangue, che è simbolo di vita. La cura circa l’affilatezza dei coltelli rituali e la santità del macellatore (shochet) sono segno e garanzia del grande valore che si attribuisce a questo aspetto della vita ebraica. E’ il senso del mondo – il rapporto tra Dio e la sua creazione – ciò che passa attraverso la kashrut. Le norme dell’alleanza sinaica e dell’halakhà in materia di kashrut riflettono condizioni e limiti posti ab origine al nostro consumo di una parte della creazione.
Di più: taref significa ‘sbranato’. La carne taref è dunque quella resa disponibile con un atto di violenza, forse secondo natura ma sempre inadatta agli standard etici e spirituali fissati dalla Torà. Mangiarla significherebbe legittimare tale violenza; senza shechità si accetterebbe un uso non rituale del ‘ferro’ (coltello, ascia o arma che sia) e si metterebbero vita e morte sullo stesso piano; significherebbe degradare l’essere umano a mero animale, quando invece lo spirito della Torà ci educa a elevarci sopra gli animali, ad esempio avendo pietà di loro e prendendocene la debita cura (di shabbat anche i nostri animali dovrebbero riposare). Evitare tutto il cibo taref non è che un’estensione, ovviamente simbolico-rituale come ogni vero messaggio pedagogico, di quest’insegnamento religioso ed etico che va al cuore dell’antropologia sinaica. Poiché ormai la carne si compra al supermercato o in negozio, buona parte del messaggio sembra perduto, ma proprio per questo la mera esistenza della keshrut diventa una profezia e una sfida, testimonianza di una consapevolezza sul mondo (e sul suo uso) che l’uomo contemporaneo ha del tutto smarrita. Si vedano gli insegnamenti di Samson Raphael Hirsch in proposito: “Compito del corpo [umano] è quello di agire come messaggero del mondo verso l’uomo e dell’uomo verso il mondo; anzi, il corpo dell’uomo dev’essere al servizio dello spirito”. Per Hirsch il fatto che solo gli animali erbivori siano (potenzialmente) kasher, mentre sono taref tutti gli animali carnivori sia quadrupedi sia volatili, è spia di questa attitudine pedagogica della kashrut (cfr. Horeb, § 453-454).
Ma taref non è l’unico contrario del termine kasher. Nel Talmud si trovano altri termini che indicano il non-conforme e il non-adatto. Ad esempio, se un sefer Torà è stato scritto con un certo numero di errori (non emendabili) allora è dichiarato ‘invalido’, lo kasher, e il termine usato è fasul. Facile per noi, che da questo trilettero ebraico abbiamo ricavato l’aggettivo italiano ‘fasullo’ nel senso di falso, di mera copia di un originale. La coppia kasher-fasul nei testi talmudici sembra dunque rimandare alla contrapposizione autentico-contraffatto, oltre la sfera alimentar-culinaria. O forse no. Anche un sefer Torà serve da nutrimento, all’anima e alla mente, rendendo il nostro vivere autentico – senza contraffazioni – e conforme alle aspettative divine. E ogni forma di idolatria è culto fasullo, una contraffazione del vero, per chi è stato creato be-tzelem Elohim.
Massimo Giuliani, Università di Trento
(18 luglio 2019)