La seduzione del falso

claudio vercelliDovremmo forse aggiornare il concetto di «falso» nella comunicazione pubblica. Poiché, ci viene da più parti ricordato, che esso non è di certo una novità. Le guerre, ma anche la pace, già dai tempi dell’antichità, si combattono ricorrendo alla manipolazione delle notizie, alla diffusione di informazioni volutamente errate o distorte, alla creazione di stati di aspettativa (così come di ansia) sulla base di impressioni, parole, discorsi ripetuti e così via. Famosa è poi la ampia riflessione di Marc Bloch sulla guerra e le false notizie, laddove queste ultime non costituiscono uno scarto, un errore o comunque un elemento estraneo al conflitto ma ne sono piuttosto parte integrante. Non di meno, la loro plausibilità, nonché la diffusione, è spesso, se non sempre, legata al compiacere diffusi pregiudizi, come anche solidi convincimenti, già radicati negli interlocutori. Per semplificare ma capirsi: se si parla male di una controparte, coloro che si oppongono ad essa saranno gratificarsi dal vederla fatta oggetto di ulteriore discredito, a prescindere dal riscontro oggettivo, o meno, del fondamento di ciò che viene detto. Quindi, il falso non esiste in sé, come fenomeno puro, ossia in quanto indipendente dalle condizioni in cui si diffonde. Infatti, per avere corso deve essere creduto. E viene creduto poiché – vale la pena di ripetere il concetto – si incontra con il bisogno di venire inteso come veritiero. In altre parole, soddisfa un bisogno, perlopiù di semplificazione al limite della banalizzazione e, quindi, della mistificazione. Sulla rete, nel web il falso si alimenta di molti fattori, parte dei quali intenzionali, altri invece “spontanei”. La sua forza, comunque, è quella di moltiplicarsi in maniera virale, creando una sorta di catena della credulità che diventa poi molto difficile, se non impossibile, spezzare. Poiché il vero oggetto del falso non è solo ciò che viene detto ma il chi lo ripete: come una sorta di sacra alleanza, i propalatori e i creduloni si stringono tra di loro, quasi a volere rimarcare che se loro dicono una cosa essa è vera a prescindere, in quanto essi stessi – per il fatto di affermarla – sono depositari di una legittimità che si esprime attraverso le loro affermazioni. («Vuoi forse non credere in me, nella mia sincerità, nella mia autenticità? Non senti e non vedi come tanti altri ripetono ciò che vado dicendo?». Segnatamente, questo dispositivo è tipico dei regimi totalitari, che sono tali non solo in quanto organizzazioni politiche ma perché costituiscono sistemi dove la dimensione della coscienza è completamente pervasa dalle immagini e dalle rappresentazioni correnti, distruggendo ogni forma di resistenza individuale.) Il falso disintegra già in origine la nozione di fonte (fondamentale non solo nella ricerca storica ma – non di meno – anche nell’informazione). Se la fonte è il «principio, origine, ciò da cui qualche cosa emana o proviene direttamente» (così recita l’enciclopedia Treccani online), ed in storia rimanda al documento coevo all’evento o al fenomeno resocontato, nella cibersfera essa diventa uno strumento variabile poiché intercambiabile: non necessita di una verifica oggettiva ma, più semplicemente, di un apprezzamento soggettivo. Qualcosa del tipo: «ci piace, quindi è verace». In queste circostanze siamo su due piani molto diversi di considerazione di un qualsiasi documento, poiché nel primo caso ci si deve confrontare con la complessità di quest’ultimo (sul piano della veridicità, dei contenuti, della loro interpretazione), mentre nel secondo ci si raccorda esclusivamente con i propri obiettivi ideologici. In queste dinamiche, che non sono solo politiche ma anche cognitive, ossia hanno a che fare con il modo prevalente di condividere codici di significato e, con essi, modi di interpretare le cose del mondo, entra poi in gioco il processo di disintermediazione che i rapporti online incentivano. Poiché una fonte è tale non solo perché esiste (magari in qualche polveroso archivio) ma perché viene fatta vivere attraverso l’interpretazione, la comparazione, il confronto contestualizzante, spesso tra persone diverse. E nel corso del tempo. Come tale, non ha un significato a priori ma a posteriori, dopo un processo di ricostruzione dei suoi contenuti, spesso difficoltoso ma senz’altro autentico. Nel web, le particelle di informazione che si presentano come fonti, letteralmente cadono addosso a chi le riceve. Sono fornite in rapida e straniante successione, a volte a raffica. I passaggi intermedi che – ad esempio – caratterizzano la ricerca che confluisce poi in un testo scritto (che sia un libro o un articolo, tanto per dire), in rete vengono cancellati, a favore di una sincronia che si presenta sotto la falsa promessa del binomio tra immediatezza e chiarezza, quando invece il più delle volte è soprattutto una sorta di sollecitazione sensoriale, che non deve indurre a riflettere bensì a reagire a scatto, su un piano più moralistico che morale e civile. In ogni processo informativo, comunicativo e formativo, la presenza di filtri è poi strategica. Essi, infatti, non servono a manipolare la notizia bensì a raffinarla in rapporto al già conosciuto e a ciò che invece deve essere ancora esplorato in quanto inedito. Nel mondo virtuale esiste un meccanismo molto diffuso per il quale ci si adopera per rafforzare i convincimenti preesistenti, creando delle vere e proprie «bolle», costituite da individui tra di loro sodali dal punto di vista culturale e rispetto alla visione del mondo. Nel loro contesto il pluralismo informativo (che è alla radice stessa di libertà dell’informazione, basandosi quest’ultima sulla varietà di sguardi rispetto alla medesima situazione, e quindi sul confronto tra di essi) viene sostituito dalla ripetizione ossessiva dei medesimi motivi, degli stessi ragionamenti, delle identiche parole. Fino ad arrivare a quello che comunemente è definito come «pensiero unico», ossia la visione dell’esistente secondo un criterio rigidamente cristallizzato. Il rafforzamento e il consolidamento di certi temi, quand’anche palesemente falsi, si basa sempre e comunque sulla loro risonanza ossessiva, maniacale in gruppi di persone che per il fatto stesso di ripeterli dà ad essi una falsa plausibilità. Si tratta dell’effetto «echo chamber», uno stato dei rapporti interpersonali per cui le notizie, le idee o le convinzioni sono ossidate dalla trasmissione o dalla ripetizione all’interno di un sistema di comunicazioni chiuso (benché invece finga di volere essere aperto a contributi diversi), in cui visioni diverse o alternative sono censurate o comunque marginalizzate. La «rete», in questo caso, invece che fare circolare liberamente imbriglia coloro che ne fanno parte, inchiodandoli ad una relazione fideistica (il credere) a ciò che viene affermato. In genere le fake news si trasmettono tra utenti che mostrano una forte omogeneità, con il rischio che una volta formatasi un’opinione errata una persona diventi molto riluttante a modificarla, considerando le informazioni corrette come concretamente derivanti da una campagna di disinformazione. Da ultimo – ma il tema non può essere racchiuso solo in queste poche note – il falso si presenta con una forte (e ingannevole) carica di denuncia morale. In un gioco perverso di ribaltamento dei ruoli, i propalatori delle falsificazioni fanno appello non alla coscienza critica ma ai sentimenti e alle emozioni dei loro interlocutori. Si presentano – quindi – come tra quanti si stiano adoperando per identificare, mettere alla berlina e possibilmente smantellare una presunta «verità ufficiale», la cui inconfessabile ragione risiederebbe nel celare gli interessi di coloro che dietro ad essa tutelerebbero le loro posizioni di privilegio. Un tale dispositivo menzognero funzionava già alla perfezione con i «Protocolli dei savi anziani di Sion», vero handbook del fake in età contemporanea. Su questa funzione di falsa rivelazione, ossia sulla retorica del disvelamento, che si coniuga al clamore con il quale tutto ciò viene presentato al pubblico, bisognerebbe soffermare maggiormente la propria attenzione. Poiché al centro del fake non c’è solo il suo contenuto ma il rapporto di potere che deve tutelare, fingendosi e camuffandosi invece da atto di moralità e di denuncia, di indirizzo dell’indignazione, di socializzazione di un sapere e di una conoscenza che è nei fatti adulterata ma che viene comunque accettata se non fidelizzata.

Claudio Vercelli

(21 luglio 2019)