Controvento – Giusta punizione
Si discute da anni ormai se la giustizia debba essere retributiva, ovvero considerare la pena come la giusta punizione del reato (occhio per occhio, dente per dente), oppure riparativa, un percorso di riabilitazione che ponga al centro la persona e non il crimine commesso. A questo dibattito, le neuroscienze contribuiscono con un punto di vista originale, che sta prendendo sempre più piede nei tribunali in tutto il mondo.
Secondo parecchi neuroscienziati, in particolare i computazionisti, che si occupano di digitalizzazione dei circuiti neuronali, il cervello è deterministico, e non ci sarebbe spazio per il libero arbitrio. Le decisioni, sostengono, sono prese per cause genetiche, ormonali, per sollecitazioni ambientali, imprinting culturali e leggi fisiche e chimiche alle quali il cervello non si può sottrarre. E quelle che noi riteniamo le nostre motivazioni, sarebbero in realtà spiegazioni a posteriori che ci costruiamo per giustificare una autonomia decisionale. Ci sono molte ricerche in questo campo, la più importante quella di Benjamin Libet della UCLA, che ha dimostrato come il comando a compiere un gesto, per esempio premere o no un pulsante, parte mezzo secondo prima di quando noi consapevolmente scegliamo che cosa fare. Il cervello insomma deciderebbe autonomamente, e noi ci limiteremmo a ratificare (e spiegare) la scelta fatta a nostra insaputa. Altre ricerche evidenziano come lo stato emotivo di gruppi di volontari cui sono state presentate immagini subliminali (cioè così brevi da non essere registrate consapevolmente) sia influenzato da quelle immagini. Se sono state proiettate immagini subliminali negative, le persone sosterranno di sentirsi tristi, depresse, e daranno una logica motivazione del perché (ho litigato con mia moglie, ho preso un brutto voto a scuola…). Mentre altri gruppi, che sono stati sottoposti a immagini subliminali positive, troveranno motivazioni altrettanto credibili per sentirsi di buonumore.
Ma anche chi crede nel libero arbitrio, ovvero nella possibilità di scegliere volontariamente se compiere o no un atto, concorda che il margine di libertà decisionale è molto ristretto, e che la maggior parte delle decisioni avvengono a nostra insaputa per ragioni che non conosciamo e per impulsi che non possiamo controllare.
Ovviamente, se così fosse, nessun criminale, nemmeno il più efferato serial killer, sarebbe “colpevole”, ma solo la vittima del proprio cervello. Il neuroscienziato Adrian Raine, che insegna presso la Philadelphia University, ha scritto un interessante saggio su questo tema, tradotto in italiano da Mondadori Università con il titolo “L’anatomia della violenza. Le radici biologiche del crimine”. E il giudice Amedeo Santosuosso, direttore scientifico del European Center for Law, Science and New Technologies (ECLT), presso l’Università di Pavia, si dichiara favorevole a introdurre con maggior frequenza le evidenze neuroscientifiche nei processi.
Considerare il criminale una vittima e non un colpevole, non significa non comminargli una pena detentiva, perché se è pericoloso va allontanato dalla società e tenuto sotto controllo. Ma il carcere, e il periodo detentivo, dovrebbero essere considerati più che una mera punizione, un percorso riabilitativo che si basa sulla plasticità del cervello anche degli adulti.
Una significativa esperienza in questo campo ha luogo ormai da una ventina di anni in Norvegia, dove ci sono prigioni, come quella di Halden, che assomigliano più a una spa che a un luogo di detenzione. I prigionieri hanno la possibilità di seguire corsi di yoga e meditazione, fare jogging nel verde, studiare, lavorare creativamente. Possono trascorrere un week end con moglie e figli in chalet appartati. Non ci sono sbarre alle finestre né recinzioni esterne apparenti, solo un normale muro di cinta, però non c’è mai stato un tentativo di evasione. Le guardie, che vengono definite “officers”, funzionari – non agenti, seguono una formazione universitaria triennale, che prevede corsi di criminologia, etica, giurisprudenza, ma anche psicologia e riabilitazione. E metà dei funzionari sono donne, perché è molto importante, sostengono i responsabili del programma, che i criminali, spesso cresciuti in ambienti maschilisti, imparino a rispettare gli esponenti dell’altro sesso.
Il risultato? 20% di casi di recidiva in meno rispetto alla media nei primi due anni, 25% i meno dopo cinque anni. E nessun episodio di violenza nel carcere, ma anzi un rapporto di amicizia e collaborazione tra detenuti e funzionari.
Questo piccolo paradiso carcerario ha purtroppo costi proibitivi, e forse solo la Norvegia può permetterselo – e anche lì, pare che siano in programma tagli significativi a causa dell’abbassamento dei costi del petrolio (la Norvegia lo estrae nel Mare del Nord, ed è una grande produttrice). Ma possono valere per tutti i principi ai quali questo modello carcerario si ispira, ovvero che i detenuti non devono essere etichettati “criminali” a vita, ma devono essere considerati persone che hanno sbagliato, che il loro progetto di recupero e di rilascio inizia il giorno in cui entrano in carcere.
Chi fosse interessato a sapere di più sull’esperienza norvegese, può leggere l’interessante reportage della BBC (leggi qui).
Viviana Kasam