Ticketless – Nuto Revelli

Questa settimana vorrei ricordare Nuto Revelli, di cui cade il centenario della nascita. Giornali e televisioni non ne parlano come io vorrei ne parlassero. Sono quasi imbarazzato a dire la mia, perché l’importanza dell’opera rischia di finire schiacciata da memorie famigliari. Nuto è stato compagno di classe di mio padre. Né uno né l’altro brillarono come studenti e l’inconsapevolezza politica fu per entrambi un trauma non semplice da superare poi. Mio padre comprese tardi la misura dell’antisemitismo fascista, Nuto sottovalutò il bellicismo del Duce tanto da entrare finite le scuole superiori nell’Accademia militare di Modena. Leggi razziali per l’uno, campagna di Russia per l’altro furono due scogli superati soltanto con l’ingresso nella Resistenza: rinsaldò l’amicizia il ritrovarsi nelle baite di Paraloup (fra l’altro oggi magnificamente restaurate dalla Fondazione Nuto Revelli: una visita nei mesi estivi è vivamente consigliabile).
Nuto aveva un carattere aspro e bonario insieme. La ferita in guerra che ne aveva deturpato il viso non riusciva a spegnere un sorriso dolce e paterno quando parlava ai giovani. Non amava i giri di parole, ma alzava la voce quando descriveva l’inganno fascista nel quale era caduto anche lui. Nei dialoghi con mio padre su Israele, il dissenso veniva in superficie, mediato da un terzo amico, Dino Giacosa. Ricordo come fosse ieri una tumultuosa loro discussione con una dottoressa polacca, Bronka Halpern, che si era nascosta nelle alpi cuneesi e aveva preso parte alla Resistenza fra l’altro curando Duccio Galimberti ferito in combattimento. Rimaneva una simpatica pediatra che si prendeva cura con metodi spicci israeliani di noi bambini e ci mandava a gicare a pallone anche con la febbre. Quando tornava a trovare mio padre negli anni Sessanta si andava sempre a salutare Nuto ed era uno spasso sentirli litigare sapendo che poi si sarebbero congedati con un abbraccio.
Per me, giovane studente, due libri di Nuto sono stati decisivi: “Il mondo dei vinti” e “L’anello debole”, raccolte di testimonianze orali sulla vita dei contadini. Non ho mai capito bene, e continuo a non capire perché poi gli interpreti più acuti dei libri di Revelli si siano sforzati di dare una lettura politica di questi due maestosi affreschi, forse condizionati dall’impegno di Nuto nel dopoguerra. Fece in tempo a vedere i figli di quel mondo arcaico, che con tanta passione aveva rievocato, cadere nelle braccia della DC. Ne prese atto, ma faticò, come tutti noi del resto, a fornire una spiegazione storica del complicato rapporto fra mondo contadino e forze progressiste. A pensarci oggi (tanto più se si pensa che i nipoti di quel mondo lontano sono oggi in stragrande maggioranza leghisti) viene fatto di pensare che la potenza dei libri di Revelli non sta in un’interpretazione politica dei vinti, ma nella forza che ha la poesia quando nasce dall’amore per la propria terra e per gli uomini e le donne che la abitano.
E la poesia, al contrario della politica, ha dalla sua l’eterno. Più tardi, in vecchiaia, verrà il libro di Revelli su un altro “vinto”, Don Raimondo Viale, il curato di montagna che salvò tanti ebrei e la Chiesa dichiarò vitando. Mi è capitato anni fa di accostare Nuto Revelli a un altro fuorilegge della storiografia, Leo Levi: nello stesso giro di anni l’uno e l’altro si eran messi a girare per le case con un registratore a bobine. Chi per registrare vecchi canti ebraici, chi per farsi narrare le storie del mondo contadino. Nuto Revelli, nella mia memoria, più passano gli anni più si sovrappone alla dottoressa Halpern. Rimane il dolce ricordo del pediatra buono della nostra storia orale, un fuori schema come Leo Levi, un cantore a-politico di una civiltà altrimenti destinata all’oblio.

Alberto Cavaglion

(24 luglio 2019)