Un numero
All’arrivo al Memoriale in onore degli italiani caduti nei campi nazisti, restaurato e ricollocato a Firenze dopo anni di abbandono da parte della direzione del Museo di Auschwitz e di divieto ad accedervi, sino al rischio recente di demolizione, si riceve un opuscolo illustrativo curato dall’ANED. Ogni volantino reca in copertina un diverso numero di immatricolazione, come ad essere immessi in lager lasciando alle spalle vesti, famiglia, capelli, nome ed identità per divenire un numero ed essere così reificati.
Un po’ come all’ingresso dell’Holocaust Museum di Washington, visitato da adolescente pochi mesi dopo la sua inaugurazione, avevo ricevuto il volto sorridente di una ragazzina di nome Judith – perso il cognome dalla memoria. Viveva in Lituania, era stata deportata, fuggita durante un’evacuazione e poi riuscita a sopravvivere – notizie scorse velocemente, respiro interrotto, sollievo infine.
Qui sono invece il deportato 176004, arrivato ad Auschwitz (secondo i registri del lager) il 26 marzo 1944 con oltre quattrocento detenuti trasferiti da Gross-Rosen. Il mio treno merci si ferma prima alla rampa di scarico del sottocampo di Eintrachthütte – un brutale luogo di torture situato ad una trentina di chilometri da Auschwitz – dove scendono centosessantuno persone. Noi che restiamo sul treno siamo condotti ad Auschwitz. In questo momento, tra il campo principale, Birkenau ed Auschwitz III siamo in 67.000, di cui 46.000 uomini. Una città di tifo e malattie, torture e morte – 18.000 di noi sono malati, Pochi giorni dopo il mio arrivo, giungeranno qui dall’Italia Teo Ducci, Mario Spizzichino e Giuliana Tedeschi. Del loro trasporto di quasi mille persone, settecento sono mandate al gas all’arrivo.
Un mese dopo la mia venuta (chissà se vivo ancora) nasce un bambino nel campo degli zingari, e del lager sono lodati gli esperimenti di castrazione maschile – quella chirurgica pare funzioni meglio di quella radiologica, che secondo il rapporto sul lavoro del ‘dottor’ Schumann ha ‘costi elevati’. Troppo dispendioso e con scarsi risultati, insomma.
Dopo pochi giorni, inizia lo sterminio degli ebrei ungheresi. Si riempie il campo per famiglie da Theresienstadt, fallisce il primo tentativo di ‘liquidare’ quello degli zingari ovvero mandarli tutti al gas.
A due mesi dal mio arrivo, oltre centomila ebrei ungheresi sono già stati assassinati ed il ‘lavoro’ è tale da impegnare le SS in turni ininterrotti di 48 ore – una fatica davvero massacrante, ne sono convinti. Certo, comunque meno dura del contatto con sangue e sudicio, quando il ‘lavoro’ era possibile solo con i plotoni di esecuzione, villaggio per villaggio, con i tempi di attesa e l’incertezza di far scavare le fosse comuni a quelli da ammazzare, che spesso di morire proprio non avevano voglia.
Quanto a me, se sono fortunato, secondo il tipo di lavoro che faccio, la probabilità di incorrere in punizioni e torture, il nutrimento inadeguato e le malattie che attaccano il mio fisico debilitato, posso resistere due, tre mesi, forse quattro. Se sono davvero fortunato.
Nel memoriale un vortice di colori, volti, suggestioni sonore, immerge il passante che vive sicuro.
Alla fine, davanti, una finestra luminosa. Difficilmente luce per il mio alter ego di cui non so neppure il nome, solo il numero di matricola. Ecco perché, laggiù all’uscita, in una foto a grandezza naturale due ragazzi si abbracciano stretti.
Sara Valentina Di Palma
(25 luglio 2019)