Netflix e il successo delle serie israeliane
“Punti di forza complessità e innovazione”

“Netflix punta sull’ebraico” scriveva Daniela Gross in un suo JCiak di due estati fa. Un testo quasi profetico per quello che è successo da allora, con una crescita esponenziale dei consensi alle serie israeliane che si sono affacciate sulla piattaforma di streaming on demand più famosa al mondo, arrivata in Italia nel 2015. Da fenomeno relativamente di nicchia, a vero e proprio exploit globale.
A guidare la classifica è naturalmente “Fauda” (termine che in arabo significa caos), la più nota e la più celebrata, che mette al centro le vicende di un’unità speciale delle Forze di difesa israeliane impegnata nella lotta ai terroristi di Hamas e dello Stato Islamico. Un racconto appassionato, coinvolgente, senza mai un calo di tensione. E che soprattutto mette al centro i problemi aperti e le tante complessità della relazione tra israeliani e palestinesi. Questo, concordano i critici, uno dei suoi punti di forza.
Come spiega Nurith Gertz, docente di letteratura e cinema alla Israel’s Open University, la trama di Fauda fa riferimento a due nazioni che si confrontano in una sfida all’ultimo sangue, ma “attraverso il suo linguaggio televisivo raffigura una serie di possibilità simultanee che creano una società in cui gli individui non si fondono nei molti o non sono assimilati a loro, ma vivono al loro fianco”.
La serie ha catturato anche l’attenzione di un osservatore qualificato come Aldo Grasso, che nella sua influente rubrica sul Corriere della sera ha riconosciuto: “Da diversi anni Israele ci ha abituati a serie tv di ottima fattura, in grado di circolare ed essere adattate in tutto il mondo. Su tutti, Homeland e In Treatment, autentici capolavori che hanno consacrato un modello di produzione originale, innovativo, mai superficiale nello sguardo e nel racconto”.
Su Netflix, aggiungeva, “è disponibile un altro monile di questa piccola, ma prolifica scuola creativa: Fauda, due stagioni da 12 episodi l’una e la terza già in fase di realizzazione, è una serie magnetica e spiazzante, unica nel suo essere distaccata ed equidistante di fronte alla quotidianità tragica del conflitto israelo-palestinese”. Tra i meriti della regia quello di indugiare “sui primi piani, sui dettagli, sui silenzi, restituendo i tormenti ma anche quella lucida follia dentro cui non pare scorgersi alcuna possibilità di redenzione”.
Sarà una sempre più accentuata contaminazione linguistica a garantire un futuro di pace alla regione? Una possibilità cui, proprio nella scia di Fauda, sembra pensare Francesco Moises Bassano. In un suo intervento su Pagine Ebraiche, il nostro collaboratore ha infatti scritto: “Ho visto tutte le puntate in lingua originale (naturalmente con i sottotitoli!) è ciò che esemplifica al meglio il titolo del film che significa ‘confusione’ è appunto proprio il caotico passaggio tra l’arabo e l’ebraico. Ebraico parlato con accento arabo, arabo parlato con accento ebraico, gli agenti israeliani come in una sorta di Effetto Stanislavskij finiscono spesso per parlare arabo anche tra loro in contesti diversi dalle missioni, momenti d’intimità inclusi”. Una visione stimolante, anche per coloro che vedono “nelle due lingue, e nelle loro affinità, una chiave per risolvere il conflitto”.
Ci si muove sul filo della tensione anche in diverse altre produzioni israeliane disponibili su Netflix.
La famiglia di una chirurga di fama che sta per operare il Primo ministro è presa in ostaggio da alcuni criminali. La richiesta, perché l’incubo abbia fine, è perentoria: dalla sala operatoria non deve uscire vivo. Ruota intorno a questa drammatica richiesta “Hostages”, una prova ad alto tasso di pathos. Come “Quando gli eroi volano”, basata sull’omonimo libro di Amir Gutfreund, che ha per protagonisti un gruppo di ex soldati, segnati da un lutto comune sotto le armi, che si mettono alla ricerca, nella lontana Colombia, di una ragazza che ritenevano morta da ormai molti anni. Il successo, anche in questo caso, è stato globale. Merito anche del premio come miglior serie TV ottenuto alla prima edizione di Canneseries, festival dedicato al mondo delle serie e miniserie televisive che si svolge dallo scorso anno a Cannes.
Cresce intanto l’attesa per l’imminente approdo su Netflix di “Red Sea Diving (The Red Sea Diving Resort)”, che sarà distribuito a partire dal prossimo mercoledì. Ispirata a fatti realmente accaduti, la pellicola racconta una delle operazioni più incredibili realizzate in passato dal Mossad: il salvataggio degli ebrei etiopi dalla guerra civile in Sudan, con base un finto resort sul Mar Rosso.
Israele su Netflix è però almeno anche “Shtisel”, serie che racconta le piccole e grandi sfide di una famiglia Haredi di Gerusalemme a confronto con amore, assenza, relazioni umane non sempre semplici da gestire. Un’occasione unica per tentare un approccio diverso a una realtà ben più complessa di quel che appare sui media mainstream. Lo sforzo è stato apprezzato, tra gli altri, dal New York Times. In un ampio articolo viene infatti evidenziata la scelta vincente di “umanizzare figure spesso oggetto di caricature lugubri e sprezzanti”. A rendere “Shtisel” emotivamente potente, si legge, “la tensione tra la Legge ebraica che ne guida la vita e i desideri e capricci dei personaggi”. Interessante, al riguardo, la valutazione che viene fatta del pubblico della serie. Il successo è trasversale: ebrei, non ebrei e tra i primi persino diversi membri del mondo Haredi (che generalmente si tiene lontano dal piccolo schermo). Un impatto così forte, anche sui social media, da spingere la produzione a una decisione non scontata che è stata annunciata nelle scorse settimane: produzione e attori sono al lavoro per una terza serie, che andrà a completare le due già disponibili.

(Nell’immagine una scena di Shtisel)

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

(26 luglio 2019)