Ghetti e pregiudizi
Passeggiando per le vie di Pistoia, una sera d’estate, insieme ad uno studioso della storia e delle tradizioni cittadine, Claudio Gori, si incontrano labili tracce di una vita scomparsa fatta di postriboli, vicoli medievali abbattuti per edificare istituti bancari di gusto (già all’epoca, secondo alcuni, dubbio) neorinascimentale, bastioni arretrati per far posto alla viabilità di una città in espansione percorsa da nuovi mezzi. E se le tendenze degli anni del regime privilegiavano una modernità razionalista, ben si comprende come uno dei facoltosi cittadini di religione ebraica abbia voluto edificare, forse per il divieto di occupare una certa superficie, una casa torre in stile neogotico.
Piuttosto che risanare, fu deciso di abbattere il quartiere di San Matteo al posto del quale si innalzò la banca in questione – come accadde per le zone più degradate di altri centri urbani quali ad esempio Firenze, dove alla fine dell’Ottocento il vecchio ed ormai disabitato ghetto fu raso al suolo, demolendovi non solo abitazioni fatiscenti ma anche nobili case torri ed edifici medievali. Di quel passato restano sarcastici componimenti dell’operaio pittore Enrico Bruni, nato nel primo Novecento, del commerciante Sebastiano Frosini (vissuto a cavallo tra Otto e Novecento) e del tipografo suo coetaneo, Virgilio Gozzoli. Tra ironia ed affetto per un mondo scomparso, i poeti vernacolari pistoiesi tratteggiano una vita in bilico tra tradizioni ed ambizioni di modernità, suggerendo una certa nostalgia per una città che non esiste più, come potrebbe erroneamente accadere davanti ad un dipinto del macchiaiolo Telemaco Signorini – il quale però con le sue opere voleva muovere, più che al rimpianto, alla denuncia sociale per la miseria di certi mestieri (come ne L’alzaia che ritrae uomini affaticati al pari di muli da soma nel muovere con funi, a mano e controcorrente, le barche intente a risalire l’Arno) o per la fatiscenza di certe zone degradate, come ne Il ghetto di Firenze.
La vita in ghetto non era affatto pittoresca, denunciava già un illustre medico ed ebraista vissuto nella seconda metà del Seicento, Bernardino Ramazzini. Nel suo studio De morbis artificum, Discussione sulle malattie dei lavoratori edito nel 1700 e considerato uno dei primi testi dedicati alle malattie professionali – ricordato anche alla ricca e variegata mostra Tutti i colori dell’Italia ebraica (a cura di Dora Liscia Bemporad e Olga Melasecchi e visitabile alle Gallerie degli Uffizi dalla fine di giugno sino alla fine di ottobre) – Ramazzini descrive anche le malattie professionali che colpivano la popolazione ebraica, dedita soprattutto alla raccolta e al riutilizzo degli stracci vecchi, molti dei quali provenienti da ospedali e quindi sporchi ed infetti. Curiosamente, la descrizione dei mali si accompagna alla denuncia sociale di stereotipi antiebraici: il popolo degli ebrei, scrive Ravazzini, non per ‘razza’ né per usanze, quanto piuttosto per i lavori che svolge, incorre in diversi mali che si riflettono in idee sbagliate: olezzano ma non per ragioni naturali, come il popolino che vive in case anguste ed in povertà emana un cattivo odore. I mestieri socialmente degradanti cui il popolo ebraico è costretto, dal cenciaiolo al materassaio, ne determinano così malattie ed insieme stereotipi.
Non solo, dunque, Ramazzini individua una correlazione tra persone, ambiente di lavoro, malattie e manifestazioni, ma anche tra professione svolta e conseguenze sociali negative. Quel mondo non può suscitare nessuna nostalgia, e fortunatamente appartiene al passato. I pregiudizi che si trascina dietro e che alimentano l’antisemitismo contemporaneo, purtroppo no.
Sara Valentina Di Palma