Il sionismo di Boris Johnson
La recente dichiarazione di Boris Johnson, di essere «un appassionato sionista», non può non provocare, se presa alla lettera, un sorriso amaro, se si ripensa a come la Gran Bretagna abbia ostacolato con ogni mezzo – a partire dalla metà degli anni ’20 del XX secolo e perfino al momento della votazione da parte dell’Assemblea generale dell’ONU della risoluzione n 181 del 29/11/1947 che portò alla nascita dello Stato d’Israele – il movimento sionista. Ma è evidente che la dichiarazione del nuovo primo ministro britannico non vuole avere un significato né storico né ideologico, ma è bensì tutta inserita nel dibattito politico contemporaneo, e sembra avere in sé due valenze.
Una è tutta interna al quadro politico britannico: nel momento in cui il Partito laburista è attraversato da dure polemiche sulla presenza al proprio interno di umori antisemiti, Johnson ha buon gioco nel presentare il Partito conservatore e se stesso in primo luogo – come la migliore garanzia che questi umori non avranno diritto di cittadinanza nel Regno Unito. Al tempo stesso Johnson nomina nel suo nuovo governo tre ministri di origine pakistana, indiana e caraibica, a garanzia che la politica di ispirazione multiculturalistica non verrà abbandonata.
L’altra valenza dell’affermazione di Boris Johnson riguarda la politica internazionale: appare cioè come un tentativo di inserirsi nel tradizionale asse Stati Uniti-Israele per giungere alla costituzione di un «fronte della fermezza», nel quale la Gran Bretagna costituirebbe il terzo lato del triangolo. Fermezza nei confronti di chi? Non mancano le situazioni e i Paesi nei confronti dei quali una linea di fermezza può essere invocata. Lo scenario principale è naturalmente quello del Medio Oriente, dove la pressione esercitata dall’Iran nei confronti non solo di Israele, ma più in generale dell’intera area può portare a situazioni di crisi di notevole pericolosità. La Gran Bretagna continua ad avere nell’area notevoli interessi, di natura economica e strategica, e i recenti incidenti marittimi proprio con l’Iran testimoniano la volontà britannica di giocare un ruolo nella regione.
Ma la necessità di un uso della fermezza si manifesta anche nei confronti di altri due Paesi, anch’essi interessati all’area mediorientale, ma che hanno anche un raggio di azione più vasto: la Russia e la Turchia.
Vista sotto questa luce, la politica della Brexit acquista un significato che va al di là dei rapporti economici con i Paesi dell’Unione Europea e può essere letta come la scelta del Partito conservatore di prendere le distanze dalle ambiguità della politica dell’Unione Europea nei confronti dell’Iran e dei Paesi e delle forze politiche che in vario modo fanno capo all’Iran, dal Qatar a Hezbollah, da Hamas alla Siria di Assad.
Resta da vedere se la personalità di Boris Johnson risulterà in qualche modo compatibile con quelle di Donald Trump e di Benjamin Netanyahu e, soprattutto, se le elezioni lo confermeranno alla guida del Regno Unito.
Valentino Baldacci