Diventare letteratura
Quanto è lunga la strada che porta una persona della nostra Comunità – una delle tante che si sfiorano senza avere occasione di conoscerle personalmente (se non una volta in una gita in montagna), ma con cui si hanno parenti e amici in comune, e quindi si presume (a torto) che prima o poi questa occasione capiterà – a diventare uno scrittore letto e tradotto in tutto il mondo? Quali tappe ha avuto quella strada? Fino a che punto negli anni ’70 e ’80 ci rendevamo conto di quanto lontano sarebbe giunta? Infinite volte mi sono posta questa domanda, in particolare in questi giorni di centenario, ma non saprei dare una risposta univoca.
Da una parte mi vengono in mente cose che a ripensarci oggi mi sembrano incredibili. Come quella volta che all’Hashomer Hatzair avevamo cercato di invitarlo a parlare con meno di 24 ore di anticipo perché improvvisamente avevamo deciso che per il giorno dopo ci serviva un ex deportato (per la cronaca: a quanto pare anziché mandarci a qual paese come avremmo meritato aveva risposto gentilmente che non poteva perché aveva già un altro impegno). Oppure mi fa effetto vedere come il bimestrale ebraico torinese Ha Keillah – che gli avrebbe poi dedicato ampio spazio per i dieci, venti, venticinque anni dalla sua scomparsa con tanto di ricerca spasmodica di qualunque cosa potesse apparire vagamente originale – avesse a suo tempo pubblicato senza metterli in particolare evidenza alcuni articoli che lui stesso aveva scritto appositamente per quel giornale.
D’altra parte già allora era famoso, scriveva sulla Stampa, talvolta si vedeva in televisione. E ricordo l’emozione con cui mio fratello, che allora doveva avere circa dieci anni, una sera dopo essere andato a rispondere al telefono annunciò: “Papà, c’è Primo Levi che ti cerca!” Quello che voleva sapere – raccontò poi mio padre – era se fosse possibile un matrimonio ebraico senza un rabbino; l’informazione gli serviva per un romanzo che stava scrivendo. Inutile dire che poi non vedevamo l’ora di leggere il romanzo – Se non ora, quando? – e scoprire quali due personaggi si sarebbero sposati senza un rabbino e perché.
È curioso conoscere in anteprima un particolare di un romanzo che non è ancora stato pubblicato, ma è ancora più emozionante ritrovare nei testi qualcosa del proprio mondo: i modi di dire in giudaico-piemontese dei nonni, amici che diventano personaggi letterari, e anche un certo modo di festeggiare le feste (penso per esempio a quanto mi ritrovo facilmente nella descrizione del seder della poesia Pasqua). È come se una parte della nostra realtà quotidiana si fosse trasformata in letteratura. Forse questo non dimostra di per sé che la nostra realtà sia particolarmente interessante, ma solo che ha trovato qualcuno bravo a raccontarla; d’altra parte i grandi scrittori sanno renderci familiare anche ciò che non abbiamo mai visto, dai ciclopi all’inferno, dai draghi alla caccia alle balene, così come Auschwitz, i centauri, una ragazza ibernata, un’equipe che discute su come creare l’uomo; l’ebraismo piemontese non è certo l’unica cosa di cui Primo Levi narra, e neppure la più significativa. Eppure un po’ di orgoglio campanilistico rimane, sia perché in fondo fa sempre piacere vedere una persona della propria Comunità conosciuta e stimata in tutto il mondo sia perché sapere che una parte della realtà che ci circonda è diventata letteratura rende quella stessa realtà decisamente più affascinante.
Anna Segre