A teatro con Manger e Goethe,
appuntamento a Weimar

Schermata 2019-08-05 alle 13.29.53 La Meghilla è presto detta. Ma se sul Libro di Ester ci si mette uno dei massimi poeti in lingua yiddish, Itzhik Manger (1901-1969), poi ci si aggiunge l’ingombrante fantasma del massimo scrittore tedesco Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), le cose rischiano di ingarbugliarsi. A Alan Bern, il vulcanico animatore dello splendido festival culturale Yiddish Summer Weimar, che nella culla della identità tedesca porta a nuova vita durante le settimane estive tutte le declinazioni di una lingua indispensabile alla cultura ebraica contemporanea, deve essere sembrato ancora poco. E ci ha aggiunto una nuova composizione musicale, il centenario della prima democrazia tedesca, la Repubblica di Weimar, il glorioso ritorno del Bauhaus, un dibattito aperto fra identità ebraica e identità europea, qualche tagliente riferimento alla realtà contemporanea. Una babele di lingue e di provenienze da diversi continenti per uno spettacolo senza pari. E infine, soprattutto, una regista italiana. Miriam Camerini, scrittrice, teatrante, musicista, studiosa di ebraismo, ha raccolto la sfida e ha dimostrato come portare in scena un mishmash esplosivo di idee e di contenuti sia certo un’operazione ad alto rischio, ma che il risultato può essere davvero esaltante.
Se si deve cominciare dalla riuscita teatrale, “Di megile fun Vaymar”, che ha aperto le giornate del festival dedicate alle grandi produzioni, deve essere considerata un successo da molti punti di vista. Manger e Goethe faccia a faccia e al banco di prova dell’inestinguibile e inevitabile confronto fra identità ebraica e identità tedesca difficilmente potevano riuscire meglio e il loro dialogo sul piedistallo del celebre monumento che simboleggia la cultura del romanticismo germanico, va molto al di là delle esigenze sceniche e tocca molti temi essenziali dell’esistenza ebraica nella società contemporanea. La suprema poesia di Manger trova ora nuova musica, creativa, ma fedele, per scandire i suoi versi. La voce di tutti i protagonisti, e in particolare delle cantanti attrici Sveta Kundish (Ester) e Milena Kartowski Aich (Vashti) lascia il segno. E bravissimi in scena tutti gli altri protagonisti, dallo sperimentato attore Mendi Cahan (Goethe autore e Goethe personaggio), a Efim Chorny (Manger autore e Manger personaggio, come pure Fastrigosa, l’amante segreto e sfortunato di Ester che Manger crea a sorpresa per scompaginare le carte della sua Meghilla); dall’accademico yiddishista Yori Vedenyapin (Ahashverosh) a Sayumi Yoshida, che dà vita alla marionetta di Manger e a tutto il complesso movimento di scena.
Mentre si dipana il doppio teatro di Manger e di Goethe e il confronto spietato fra i tanti diversi modi di leggere il libro di Ester, Alan Bern conduce con il suo entusiasmo senza incertezze un ensemble musicale travolgente. Le scene e i suggestivi pupazzi firmati dallo scenografo newyorkese Gregory Corbino portano al sicuro il risultato scenico.
Proiettata da Milano a tenere le redini di un’energia che corre il rischio di disperdersi in mille rivoli e che era comunque incardinata alle esigenze della lingua yiddish, Miriam Camerini ha saputo giocare a beneficio dello spettatore tutte le carte di un mazzo apparentemente così complesso e disparato. Un lavoro durissimo e ammirevole che è riuscito sulla scena a rendere l’emozione di una composizione naturale. E ha dimostrato come l’impegno e la professionalità siano l’unica strada da percorrere per i giovani ebrei italiani che vogliano lasciare un segno davvero significativo e dire qualcosa di vero sulla grande scena della creazione ebraica di rilievo internazionale.
Alla complessa produzione, che ci si deve augurare prenda il volo da Weimar e giri a lungo sulle scene internazionali, hanno partecipato artisti provenienti dai paesi più disparati. Lo yiddish è stata la sfida del loro linguaggio comune. Giudicate voi se questa può davvero essere considerata una lingua morta. O se, al di là del rumore che ci stordisce, non sia piuttosto moribondo il nostro spento linguaggio scandito da vacue e inevitabili espressioni di comodo in cui non siamo più capaci di credere. Dal degradante tic del veleno disseminato dai social network sulle nostre inutili peripezie di ogni giorno.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche Agosto 2019