A Weimar sogno di un’Europa senza odio
Uno impugna il lauro, l’altro appena lo sfiora. Uno porta il rotolo manoscritto, l’altro gli appoggia una mano sulla spalla. I loro sguardi scrutano orizzonti diversi, ma entrambi si spingono lontano. Sulla piazza del Teatro nazionale tedesco, a Weimar, il monumento a Johann Wolfgang von Goethe e Friedrich von Schiller continua dalla metà dell’Ottocento a simboleggiare i due giganti della letteratura tedesca. Sono migliaia ogni giorno i visitatori e i passanti che si fermano commossi per rendere omaggio a uno dei simboli più eloquenti della cultura europea. Ma nelle festose settimane dell’Yiddish Summer Weimar, il grande festival che alterna musica, teatro, corsi di lingua e riporta trionfalmente alla vita le modalità espressive degli ebrei aschenaziti, proprio quel monumento assume un significato tutto diverso. Sul palcoscenico dell’appassionante “Meghilla fun Vajmar” che Miriam Camerini ha portato in scena con un cast d’eccezione nella prima giornata di festival, il monumento riappariva davanti agli occhi del pubblico. Accanto al Goethe che viene raccontato dall’opera in yiddish, non più il suo amico di gioventù Schiller, ma lo stesso Itzhik Manger con la riscrittura in forma poetica della vicenda narrata nel Libro di Ester ha scritto alcune delle più belle pagine in yiddish. Non è però la prima volta che Schiller scende dal piedistallo e si va a fare una passeggiata, lasciando qualcun altro a dialogare con Goethe. L’ultimo giorno di luglio del 1949, sono trascorsi esattamente 70 anni da allora, mentre la Germania liberata raccoglieva ancora le macerie e cercava disperatamente una via per sopravvivere alla lacerazione della Guerra fredda, la stampa svizzera celebrava con una vignetta il ritorno dell’Altra Germania. Thomas Mann, che aveva lasciato il suo paese ai primi segni dell’ascesa di Hitler, appariva nel disegno al posto di Schiller e a fianco di Goethe. Proprio in quei giorni il grande scrittore aveva lasciato il suo esilio svizzero per accogliere l’accorato appello delle autorità della Germania occidentale e della Germania comunista. In un appassionato discorso tenuto a duecento anni dalla nascita di Goethe nei due luoghi simbolo della democrazia tedesca, la Paulskirche di Francoforte dove si riunì il primo parlamento nazionale del 1848 e la Theaterplatz di Weimar, dove aveva sede il governo democratico e repubblicano che fu rovesciato dai nazisti, Mann era tornato come un trionfatore. L’altra Germania che lo scrittore aveva voluto con passione rappresentare negli anni della dittatura e della guerra, anche se al prezzo di indicibili sacrifici aveva vinto. La Germania degli esuli e degli oppositori irriducibili, la Germania che fu capace di esprimere il massimo della cultura ebraica in Europa, era infine tornata. Prima di tenere la sua prolusione dedicata a “Goethe e la democrazia”, Mann si era fermato a rendere omaggio al monumento. Solo la cultura, rappresentata dai grandi della letteratura tedesca del passato e dell’oggi, poteva restituire coraggio. Accolto con tutti gli onori a Ovest e a Est da una classe politica che per quanto rinnovata lo scrittore considerava comunque compromessa e con le mani sporche di sangue, Mann tenne un discorso memorabile come se davvero parlasse dall’alto del piedistallo di Weimar. “Era l’elemento europeo dentro Schopenhauer, Nietsche, Wagner e soprattutto Goethe – dirà – che sentivo in loro. Una Germania europea che aveva sempre costituito il fine dei miei desideri e dei miei bisogni, molto in contrasto con l’”Europa tedesca”, questa aspirazione terrificante del nazionalismo tedesco che per me era stata sempre un orrore e che mi costrinse ad abbandonare la Germania. La Germania europea è nello stesso tempo la Germania democratica, prendendo questa parola nel suo più vasto significato, la Germania con cui si può vivere, che non ispira al mondo paura, ma simpatia, in quanto è capace di partecipare alla religione democratica dell’umanità”. Il regime comunista di Berlino, che controllava Weimar, sperava di aver conquistato il credito internazionale di cui aveva bisogno. Il governo di Bonn voleva tornare con l’aiuto di Mann sulla scena della politica internazionale. Entrambi fecero a gara per offrire a Mann e a suo fratello Heinrich la presidenza della Repubblica. Ma Heinrich morirà da lì a poco e Thomas continuerà nella sua determinazione di guardare la Germania dall’esterno. Tempi andati, che hanno segnato profondamente anche il nostro contemporaneo, e governi tramontati. Ma il monumento che mostra l’amicizia invincibile fra Goethe e Schiller serve per guardare più lontano. Verso l’idea di un’Europa libera dall’odio e dai regimi, aperta a un futuro di pace e di cultura. Sicura che la sua promessa, più volte tradita, riprenderà a brillare e che i nomi di Goethe e Schiller, di Mann e di Manger, splenderanno in eterno nel cielo di Weimar.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche Agosto 2019
Il bardo Itzik Manger, fra tradizione e humor
Nella prima metà del Novecento Itzik Manger era il nome di una celebrità, un nome conosciuto da decine di migliaia di persone. Poeta, drammaturgo, scrittore di prosa e saggista, Manger conquistò il pubblico dell’Europa orientale con le sue creazioni letterarie in yiddish. Nel periodo dalla fine degli anni Venti a fine anni Trenta fu particolarmente prolifico: trasferitosi a Varsavia, pubblicò al ritmo di un libro all’anno, fondò un giornale letterario, fece ovunque letture pubbliche, creò testi per il palcoscenico yiddish e diventò uno sceneggiatore per l’industria cinematografica (sempre in yiddish). Il 1939 spazzò via questi successi: lui e il suo ingegno sopravvissero ai nazisti mentre milioni di suoi lettori furono inghiottiti nella Shoah. A cinquant’anni dalla sua scomparsa – avvenuta in Israele nel 1969 dove riottenne solo in parte la sua notorietà – mantenere viva la sua opera rappresenta un modo di rendere onore a un’intera cultura di cui siamo rimasti praticamente orfani e di cui Manger fu uno dei bardi, capace di unire la lettura alta con quella popolare. Nato nella città rumena di Czernowitz, la capitale multietnica e multiculturale della Bucovina, e cresciuto in parte nella città di Jassy, sede dei primi trovatori yiddish, “Manger fece sua l’eredità della regione come culla del teatro yiddish – raccontava sul Tablet Dara Horn – Suo padre, un sarto, coniò il termine literatoyre (un gioco di parole che unisce “letteratura” e “Torah”) per descrivere i propri slanci creativi, ma ancor di più quelli del figlio. Manger adottò gli aspetti popolari della cultura yiddish, come i giochi per Purim e le storie dei giullari da matrimonio, e iniziò a pubblicare poesie sulla laica stampa yiddish rumena”. La sua abilità fu quella di saper adottare più registri, grazie anche a una profonda conoscenza della Torah e dei testi della tradizione ebraica. Nel suo manifesto del 1939, “Folklor un literatur” (Folklore e Letteratura), pubblicato nella rivista letteraria yiddish Afn sheydveg di Parigi, Manger invocava una sintesi tra la scuola lirico-romantica di Peretz (celebre scrittore yiddish) e la scuola realistico-grottesca di Goldfadn e Sholem Aleichem. Una sintesi creativa che l’autore del manifesto aveva raggiunto, scrivono i critici, nella sua lirica drammatica Khumesh lider (Poemi biblici, 1935), in cui le figure dei patriarchi erano rappresentate come ebrei dello shtetl dell’Europa dell’Est. “Nelle ballate e nelle poesie che compongono il ciclo Khumesh lider, Manger dà corpo a personaggi biblici che raramente parlano nel testo originale. Egli dà loro voci proprie e aggiunge personaggi, idee e motivi che fanno il miracolo: portano la grande epopea del popolo ebraico nella prospettiva umana”, l’analisi di Jeremy Dauber, docente alla Columbia University ed esperto di letteratura yiddish ed ebraica. Tra i testi di successo di Manger, uno scritto in prosa tradotto anche in italiano da Giuntina: Il libro del paradiso. La premessa del romanzo viene da una storia nel Talmud su come ai bambini nel grembo delle loro madri viene insegnata l’intera Torah prima della loro nascita. Un’opera che l’editore italiano descrive come “suggestiva, esilarante e commovente a un tempo, in cui l’autore dà libero sfogo alla sua vena d’ironico e disincantato interprete di storie bibliche”.
Daniel Reichel, Pagine Ebraiche Agosto 2019
La moglie infernale
Per Elie Wiesel era da ritenersi “un grande, se non il più grande” romanziere yiddish in circolazione. Eppure il nome di Chaim Grade, almeno in Italia, per lungo tempo ha detto assai poco. Un libro straordinario, tradotto da Anna Linda Callow e pubblicato dalla casa editrice Giuntina, rende giustizia a questo scrittore un po’ dimenticato che, lasciata Vilnius e l’Europa per gli Stati Uniti, tratteggiò nei suoi libri il mondo affascinante e oggi quasi del tutto scomparso degli ebrei dell’Est. Un mondo che nei suoi scritti oscilla tra luci e ombre, che si confronta con i processi storici di trasformazione interni all’ebraismo stesso, ma soprattutto popolato da uomini e donne in carne e ossa. Personaggi veri, non figurine idealizzate, e quindi costantemente alle prese con ambizioni, fragilità, complessità. La moglie del rabbino è in questo senso un affresco memorabile. Al centro c’è la figura di Perele, la sua voglia di vendetta, le sue trame per il potere. È una figura che può risultare urticante, a tratti davvero insopportabile. Ma è proprio questo che tiene incollati dalla prima all’ultima pagina. “Le donne cattive sono implacabili. Ed è proprio l’implacabilità a renderle così infelici e insoddisfatte. Sarà per questo che godono della nostra comprensione inconsulta, della nostra filiale, amorevole dedizione. Sarà per questo che non possiamo farne a meno” ha scritto Alessandro Piperno sulla Lettura del Corriere. Non amava la ribalta, Grade. E non amava i riconoscimenti. O forse nel suo cuore li anelava, chissà. Ma sua moglie lo voleva tutto per sé. Quando nel 2010 morì, a quasi 30 anni dalla scomparsa del marito, nell’appartamento in cui la coppia visse furono ritrovati migliaia di libri, manoscritti, opere di letteratura yiddish. Una testimonianza monumentale che dal Bronx ha finito per approdare agli scaffali della Biblioteca Nazionale di Gerusalemme e dell’Istituto di scienze yiddish di New York. E così la penna di Grade e di quella indimenticabile generazione di intellettuali continua a parlarci. Di ebrei dell’Est, di mondi sull’orlo dell’abisso, di umanità viva.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche Agosto 2019