Periscopio – Ricordare Primo Levi
Ricordare la figura di Primo Levi, nel centenario della sua nascita, suscita pensieri ed emozioni contrastanti.
Generalmente, in tali circostanze, si tende a tracciare un quadro complessivo di sintesi del contributo lasciato dal personaggio commemorato, rievocando quanto egli abbia dato, nel bene o nel male, alla società, quanto profondamente abbia inciso una traccia nella storia, quanto la sua memoria possa ancora dirsi viva e vitale. E, naturalmente, tale analisi va effettuata sullo specifico terreno sul quale il personaggio si è fatto valere: di Cesare e di Napoleone si parla nella storia militare e politica, di Omero e Leopardi nella storia della poesia, di Mozart e Puccini in quella della musica ecc. Ma su quale terreno va collocata la figura di Primo Levi?
Il suo lascito, com’è noto, appartiene a un campo decisamente peculiare, a un genere letterario che egli stesso, per molti versi, ha contribuito a creare, che è quello della Memoria. Le sue pagine, ovviamente, non sono state le uniche né le prime in cui qualcuno racconta delle vicende personali di cui è stato protagonista (nel suo caso, vittima). Da quando è nata la scrittura, si può dire, gli uomini hanno raccontato, per vari scopi, in modo più o meno fedele o fantasioso, le vicende a cui hanno assistito, o in cui sono stati coinvolti. E la prima domanda che un lettore, di fronte a un qualsiasi racconto, deve porsi, non è tanto se e in che misura esso dica “la verità” (concetto, com’è noto, quanto mai soggettivo, sfuggente, opinabile e aleatorio), ma quali siano gli scopi, le intenzioni che possono avere mosso il narratore a lasciare la sua testimonianza. A chi si rivolgeva? Perché lo faceva? Non si può mai “credere” a un racconto se non ci si siano prima poste tali domande, anche perché lo scrittore può dire tranquillamente il falso senza neanche esserne consapevole, e, come qualsiasi storico sa bene, spesso le menzogne e i falsi, in una narrazione storiografica, sono le cose più interessanti, quelle da cui più si apprende, che vanno principalmente studiate e analizzate.
Da questo punto di vista, è evidente che l’assoluta peculiarità dell’oggetto del racconto di Primo Levi, così come la sua particolare missione di testimone, rendono la sua testimonianza e la sua scrittura qualcosa di peculiare, di unico. Egli, infatti, non fu chiamato a raccontare delle vicende di storia, o di guerra, come quelle narrate, per esempio, da Erodoto, Tito Livio o Churchill, ma qualcosa che – pur accaduto dentro la storia, dentro la guerra – si colloca al di fuori di esse. Il suo straordinario, eroico impegno è consistito nel tentativo di esprimere – con la lucida, fredda analisi dello scienziato, abituato alla certezza e all’oggettività dei numeri, delle leggi della fisica, degli elementi della natura e delle reazioni chimiche – qualcosa di oscuro, opaco, inspiegabile, che è sembrato azzerare qualsiasi capacità di comprensione, spiegazione, interpretazione. Uomo profondamente razionale, fiducioso nella intellegibilità della realtà, nella funzione del logos, nel valore della scienza, nella capacità dell’uomo di investigare, di comunicare, di cercare rimedi, ha provato ad applicare le sue categorie culturali per descrivere qualcosa che sfugge a qualsiasi possibilità di descrizione, di analisi, di comprensione. “Hier ist kein Warum”, “qui non esiste ‘perché'”, è la risposta che si sentì dare da un suo compagno di prigionia, alla sua ingenua domanda del perché, senza alcun apparente motivo, gli avesse sferrato un terribile pugno in pieno viso. Ma Primo non si arrese, e cercò sempre, per tutta la vita, di cercare il “Warum” dell’inferno senza Warum.
Come ebbi a scrivere nelle righe finali di un mio libretto dedicato alla morte di Primo Levi, il suo ultimo gesto, quello estremo dell’11 aprile 1987, rappresenta la sua ultima, definitiva parola, che chiede anch’essa di essere ascoltata. “Un solo attimo di ingresso nel mondo nel silenzio, di resa alle tenebre – scrissi -, che vale altrettanto – non di più, ma non di meno – dei precedenti quarantadue anni di lucide, forti, luminose parole”.
Credo, a cent’anni dalla nascita del grande Testimone, che la domanda fondamentale che ci lascia è cosa, della sua eredità, debba essere considerato prevalente: la luce della sua parola, o il buio della sua ultima “non parola”. E credo che la risposta non possa essere data in astratto, ma dipenda dal concreto stato di avanzamento, nel mondo degli uomini, della luce o delle tenebre, della civiltà o della barbarie. Oggi la situazione è quella che è, e non c’è molto spazio per l’ottimismo. Ma voglio pensare che il migliore modo per rendere onore alla memoria di Levi sia – mettendo da parte ogni giustificato pessimismo – quello di custodire e trasmettere le sue parole. Tutte, compresa l’ultima.
Francesco Lucrezi, storico