Amicizie equivoche
Spesso mi è capitato di parlare con israeliani di tutte le età, in Israele o in Italia, del servizio militare e della guerra (per fortuna in molti frangenti a intensità relativamente bassa) in cui il loro paese ancora si trova, e finora nessuno me ne ha parlato come di un’esperienza positiva o una situazione esaltante, ma al contrario come una triste necessità. Alcuni aggiungono giudizi poco lusinghieri sull’organizzazione dell’esercito, sulle piccole e grandi violenze di cui sono stati testimoni, molti auspicano – di solito poco convintamente – che per la prossima generazione il servizio militare non sia più indispensabile.
Altrettanto sovente mi è capitato di vedere italiani che prediligono Israele per motivi vari – in non pochi casi, detto per inciso e senza alcun intento valutativo, senza un corrispondente interesse per l’ebraismo – descrivere l’esercito israeliano con toni entusiastici o addirittura euforici. La mia sensazione è che spesso queste persone abbiano una conoscenza molto parziale e a volte pressoché nulla di Israele e che non di rado sentano attrazione per lo stato ebraico sulla base di grossolani fraintendimenti, per esempio in nome di un suo supposto militarismo, volentieri confuso con la realtà complessa di una nazione – questo sì – militarizzata. Ad alcuni Israele piace esattamente perché lo considerano un paese guerrafondaio, militarista, razzista nei confronti degli arabi. Sarebbe d’altronde riduttivo considerare sempre questa predilezione come interessata, anche se è vero che molti hanno Israele in simpatia perché lo ritengono un bastione nel presunto “scontro di civiltà” contro il mondo islamico. E di fronte agli “arabacci” anche gli “ebreacci” di Israele tornano utili. Almeno per ora.
Giorgio Berruto