Le radici del presente
Credo che – al di là dei sondaggi elettorali, dei talk show urlati, dei social sfrenati – la maggior parte dei cittadini viva in uno stato di confusione e di smarrimento, aggrappandosi volta a volta a questo o a quel personaggio politico che sembra interpretare uno stato d’animo più o meno duraturo piuttosto che proporre un programma di governo che sia in qualche modo credibile. Si sente sempre più spesso ripetere che l’Italia è il malato d’Europa, ma è necessario chiedersi di quale malattia soffra il nostro Paese, se d’altra parte si sente anche dire che siamo la terza potenza industriale europea, che la nostra creatività è apprezzata in tutto il mondo, che in molti campi non siamo secondi a nessuno. Dove sta allora la radice di questo senso di smarrimento, di perdita di senso di identità che caratterizza oggi la vita del nostro Paese?
Se si prescinde dalle vicende dei Paesi sottoposti al comunismo e di quelli che si sono liberati da forme di fascismo vecchio e nuovo (Spagna, Portogallo, Grecia), nell’Europa occidentale due soli Paesi hanno conosciuto nel corso degli oltre settanta anni che ci separano dalla fine della II guerra mondiale un ricambio radicale della classe dirigente: Francia e Italia. In Francia il cambiamento è avvenuto molto precocemente, a poco più di dieci anni dalla fine della guerra, ed ebbe come causa fondamentale le vicende di due guerre coloniali, quella d’Indocina e quella d’Algeria. Al posto della classe dirigente spazzata via quasi interamente nel 1958 ce n’era però un’altra già pronta ad assumere la guida del Paese, formata non soltanto dai compagnons del Generale De Gaulle ma anche da quelle figure formate al senso dello Stato e del suo servizio, uscite dalle grandes écoles. La prima preoccupazione di quella nuova classe dirigente fu di rinnovare radicalmente le istituzioni politiche, dando vita alla V Repubblica, istituzioni che hanno retto alla prova di sessanta anni di vicende complesse e spesso traumatiche.
L’Italia non aveva eredità coloniali con le quali fare i conti. La crisi del suo sistema politico, consumata tra il 1992 e il 1993, è stata perciò tutta endogena, e ancora oggi gli storici stentano a darne una spiegazione condivisa. Certo, all’inizio degli anni ’90 sono venuti al pettine nodi che si trascinavano dalla fine della guerra o che addirittura erano coevi alla nascita dello Stato unitario. Alcune caratteristiche di fondo della storia italiana del dopoguerra – come l’esistenza del più forte Partito comunista d’Europa e il ruolo del tutto particolare della Chiesa cattolica – differenziavano il nostro dagli altri Paesi europei, e tuttavia queste anomalie erano state in qualche modo metabolizzate. Il crollo del modello comunista rimise in movimento un sistema politico per molti versi immobile ma senza che ciò dovesse comportare necessariamente la crisi che si determinò tra il 1992 e il 1994. Anzi, il venir meno dell’anomalia comunista avrebbe dovuto liberare forze in grado di allargare la composizione della classe dirigente.
In realtà niente di tutto questo avvenne e, al contrario, nel breve giro di un paio di anni il sistema politico fu spazzato via senza che al suo posto fosse disponibile, come era avvenuto in Francia, una classe dirigente di ricambio pronta a prendere il posto della precedente. Poiché il vuoto non può esistere, una nuova classe dirigente fu improvvisata da un lato con la cooptazione dei quadri di una società di promozione pubblicitaria e dall’altra riciclando un personale politico che nella Prima Repubblica si era caratterizzato per la sua destinazione permanente nei ruoli dell’opposizione, senza perciò acquisire esperienza e mentalità di governo e conservando invece una cultura basata su aspettative moralistiche e palingenetiche.
La motivazione del ricambio della classe dirigente comunemente addotta è stata la necessità di combattere la corruzione. La presenza di un certo grado di corruzione ha caratterizzato tutti i regimi di ogni tipo, si può dire dall’inizio della storia del mondo, e certamente a partire dall’inizio dell’età moderna, dalla Rivoluzione francese e per tutto il corso dell’800 e del ‘900. E’ stata spesso additata come caratteristica dei sistemi parlamentari, ma non è stata certo assente in quelli autoritari. È stato nel corso dell’800 e del ‘900 l’argomento più usato per combattere i regimi parlamentari, ma solo nell’Italia degli anni ’90 è riuscito ad avere successo; ma paradossalmente non ha avuto come risultato la sostituzione del sistema parlamentare con un altro, magari di tipo presidenzialista. Al contrario, il sistema parlamentare della Prima Repubblica è rimasto sostanzialmente immutato e ha visto soltanto un turbinio di leggi elettorali che sono state modificate praticamente ad ogni cambio di maggioranza, senza dar luogo ad un sistema non solo stabile ma anche comprensibile dai cittadini. In questa situazione la causa prima della “rivoluzione” del 1992-1993 è stata di fatto dimenticata e la corruzione continua da essere presente, in forme spesso ostentate.
Come è accaduto spesso nella storia, si è fatto strada allora il mito della “seconda ondata”. Il successo del movimento grillino è nato su questo mito: se la “rivoluzione” del 1992-1993 era fallita, allora ci voleva una seconda ondata che spazzasse via definitivamente il mondo dell’affarismo e della corruzione e instaurasse il regno della virtù. Poco più di un anno fa il M5s ha avuto un grande successo elettorale ma, di conseguenza, si è trovato nella necessità di amministrare la cosa pubblica, anche se in coabitazione con un’altra forza politica che al tempo della crisi della I Repubblica aveva sostenuto anch’essa la necessità di una palingenesi totale. Quello che ha prodotto l’incontro e l’alleanza tra due visioni palingenetiche è sotto gli occhi di tutti.
Oggi la scena politica oscilla tra manovre tattiche di corto respiro e, di nuovo, prospettive di rinnovamento totale che dovrebbero, una volta di più, risolvere tutti i problemi della società italiana. Manca un’offerta politica che si faccia carico in maniera concreta dei problemi del Paese e cerchi di affrontarli in una prospettiva di lungo periodo. Ma da chi dovrebbe provenire questa offerta politica se ogni embrione di classe dirigente viene combattuto come esempio di “casta”?
Valentino Baldacci