L’arte di preoccuparsi
Preoccuparsi non è così facile come sembra. Non perché manchino i motivi, naturalmente, quelli non scarseggiano mai. Ma proprio per questo bisogna fare attenzione a non esagerare: preoccuparsi di tutto è come non preoccuparsi di niente; se un campanello di allarme suona in continuazione nessuno ci fa più caso. Per esempio i politici all’opposizione che protestano sempre nello stesso modo e con i medesimi toni – che si tratti di una manovra economica, della TAV sì o no, di razzismo, di atteggiamenti di disprezzo verso le istituzioni, di veri e propri pericoli per la democrazia – non riescono a trasmettere al pubblico la preoccupazione neanche quando questa è ampiamente giustificata.
Noi ebrei a rigor di logica avremmo ottime ragioni per essere sempre almeno un po’ preoccupati, ma questo non ci aiuta: la storia dell’ultimo secolo ha dimostrato che facciamo fatica a distinguere i campanelli di allarme più lievi (quelli per cui un po’ di proteste e qualche presa di posizione netta possono bastare) da quelli che dovrebbero spingerci a emigrazioni e fughe prima che sia troppo tardi. E nel nostro modo di guardare alla storia dell’ultimo secolo abbiamo spesso visioni opposte: ciò che preoccupa qualcuno di noi è esattamene ciò che tranquillizza qualcun altro, e viceversa. Alcuni curiosamente sembrano guardare alla storia come ad uno specchio e, nello stabilire priorità tra le persone e le idee che devono destare la nostra preoccupazione in base alla nostra esperienza, tendono a scambiare la destra con la sinistra.
Però, in un modo o nell’altro, tutti guardiamo alla storia e, anche se la interpretiamo diversamente, per noi è comunque scontato che ciò che è successo ai nostri genitori, nonni e bisnonni deve essere una guida per decifrare la realtà di oggi. Perché per noi è chiaro che la preoccupazione è una tecnica, se non un’arte, e come tale deve essere appresa e coltivata seriamente. Proprio perché è difficile, la preoccupazione non si improvvisa, ma richiede studio e applicazione. E lo studio, ovviamente non può che essere lo studio della storia. Ho l’impressione che questa consapevolezza non sia altrettanto presente fuori dal mondo ebraico. Forse la storia tornerà ad essere presa sul serio quando si capirà che lo studio della storia è un requisito necessario per riuscire bene nell’arte della preoccupazione.
Anna Segre